Quaid si svegliò con lo stesso sogno. Sempre le scale. Sempre lui che guarda giù dalla tromba delle scale, mentre quella ridicola visione, in parte divertente in parte orribile, sale verso di lui in punta di piedi, una risata ad ogni passo.

Non gli era mai successo prima di sognare due volte nella stessa notte. Allungò la mano e cercò a tastoni la bottiglia che teneva accanto al letto. Al buio tracannò tutto d'un fiato, profondamente.

 

Steve superò il crocchio di uomini infuriati, non facendo caso alle loro grida, né ai lamenti e alle maledizioni del vecchio. Gli inservienti avevano il loro bel da fare a calmare gli animi. Quella sarebbe stata l'ultima volta che lasciavano entrare il Vecchio Crowley: incitava sempre alla violenza. C'erano tutti i segni di un'imminente rivolta. Ci sarebbero volute ore per sedarla.

Nessuno chiese nulla a Steve mentre vagava nel corridoio, usciva dalla porta e si dirigeva verso l'entrata del dormitorio. I battenti erano chiusi, ma l'aria fresca che filtrava, pungente con l'avvicinarsi dell'alba, sapeva di pulito.

L'angusta segreteria era vuota e attraverso la porta Steve scorse un estintore appeso alla porta. Era rosso e luminoso. Accanto c'era una lunga manichetta nera, arrotolata su di un cilindro rosso, come un serpente addormentato. Vicino, sistemata fra due supporti, c'era un'accetta. Un'accetta molto bella.

Stephen entrò nell'ufficio. Poco distante udì passi frettolosi, grida, un fischio. Ma non arrivò nessuno a interrompere Steve, mentre faceva amicizia con l'accetta.

Dapprima le sorrise.

La curva della lama rispose al suo sorriso.

Poi la toccò.

L'accetta sembrò apprezzare il suo tocco. Era tutta impolverata e non era stata usata da lungo tempo. Troppo tempo. Voleva essere presa, accarezzata e vezzeggiata. Steve la tolse delicatamente dai due sostegni e la fece scivolare lentamente sotto la giacca per tenerla al caldo. Poi uscì e andò alla ricerca della sua scarpa.

 

Quaid si svegliò ancora.

 

Steve non ci mise molto tempo a orientarsi. I suoi piedi sembravano aver messo le ali mentre si dirigeva verso via del Pellegrino. Si sentiva un clown, con addosso tutti quei colori sgargianti, con quei pantaloni così larghi e quegli scarponi così assurdi. Era un ragazzo buffo, no? Rise di se stesso, era così comico.

Il vento cominciò a penetrare in lui, mettendogli addosso una sorta di frenesia, mentre gli scompigliava i capelli e rendeva i suoi bulbi oculari gelidi come pezzi di ghiaccio.

Cominciò a correre, a saltellare, a danzare, a far capriole per le scale, bianco sotto le luci, nero dove non c'erano. Adesso mi vedi, adesso non mi vedi. Adesso mi vedi, adesso...

Quaid non si era svegliato a causa del sogno, questa volta. Questa volta aveva udito un rumore. Sì, un rumore, ne era sicuro.

La luna era alta nel cielo ormai, tanto da gettare i suoi raggi attraverso la finestra, attraverso la porta e sulla cima delle scale. Non c'era bisogno di accendere la luce. Tutto ciò che aveva bisogno di vedere, poteva vederlo: in cima alle scale non vi era nulla, come sempre.

Poi dal fondo della scala provenne uno scricchiolio, un rumore lieve come se un respiro vi si fosse posato.

Quaid, in quel momento, conobbe la paura.

Un altro scricchiolio, mentre saliva le scale verso di lui, il ridicolo sogno. Doveva essere un sogno. Dopo tutto, non conosceva clown, non conosceva assassini con l'accetta. Perciò, come poteva quell'assurda immagine, la stessa immagine che lo svegliava notte dopo notte, essere qualcosa di diverso da un sogno?

Però, forse c'erano alcuni sogni così insensati che potevano solo essere veri.

Nessun clown, si disse, mentre osservava la porta e le scale e la luce della luna. Quaid conosceva solo menti fragili, così deboli che non erano in grado di dargli un indizio sulla natura, sull'origine o la cura per il panico che ora lo teneva prigioniero. Tutto ciò che riuscivano a fare era spezzarsi, sgretolarsi se messi a confronto con il minimo segno della paura che stava al cuore della vita.

Non conosceva nessun clown, non ne aveva mai conosciuti, non ne avrebbe mai conosciuti.

Poi apparve. La faccia di un folle. La luce lunare illuminava sinistramente il suo giovane volto pallido, tumefatto, gonfio e con la barba incolta, la bocca aperta in un sorriso infantile. Si era morso le labbra per l'eccitazione. La mascella era imbrattata di sangue e le gengive erano nere di sangue. Rimaneva pur tuttavia un clown. Indiscutibilmente un clown, persino con quegli abiti inadatti, così assurdi, così patetici.

Solo l'accetta non s'intonava con il sorriso.

Un raggio di luna la illuminò, mentre il maniaco eseguiva dei piccoli movimenti irregolari con l'accetta; i piccoli occhi neri brillarono in previsione del divertimento che lo attendeva.

Quasi in cima alle scale, si arrestò. Non smettendo mai di sorridere, mentre fissava il terrore di Quaid.

Incapace di sostenersi, Quaid cadde in ginocchio.

Il clown superò con un balzo un altro gradino, con gli occhi scintillanti fissi su Quaid, carichi di una malvagità quasi benevola. L'accetta oscillava avanti e indietro nelle sue mani, in una versione innocua del colpo mortale.

Quaid lo conosceva.

Era il suo allievo. La sua cavia trasformata nell'immagine della sua paura.

Lui. Proprio lui. Il ragazzo sordo.

Il clown balzò in avanti, lanciando un grido gutturale, come il richiamo di un uccello mitologico. L'accetta roteava nell'aria con movimenti sempre più ampi, ogni volta sempre più letali.

"Stephen," lo chiamò Quaid.

Quel nome non significava nulla per Steve. Vedeva solo una bocca che si apriva. Una bocca che si richiudeva. Forse ne era uscito un suono. Forse no. Per lui era irrilevante.

Il clown emise un suono stridulo e l'accetta roteò sulla sua testa brandita a due mani. Nello stesso momento, i movimenti cadenzati e gioiosi si trasformarono in una corsa, mentre l'uomo con l'accetta superava in un sol balzo gli ultimi due gradini e irrompeva nella stanza da letto. La luce ora lo illuminava completamente.

Il corpo di Quaid compì una mezza giravolta per evitare il colpo mortale; ma non fu né sufficientemente veloce né sufficientemente elegante. La lama fendette l'aria e si abbattè sul braccio di Quaid, tranciando gran parte del tricipite, spezzandogli l'omero ed aprendo uno squarcio che per poco mancò l'arteria.

L'urlo che Quaid lanciò echeggiò in tutto l'isolato. Peccato che quelle case fossero solo macerie. Non c'era nessuno che potesse udire. Nessuno che potesse venire in suo aiuto e liberarlo dalla ferocia del clown.

L'accetta impaziente di fare il suo lavoro si stava abbattendo ripetutamente sulla coscia di Quaid, come se stesse facendo a pezzi un tronco d'albero. Si spalancarono profonde ferite portando alla luce brandelli scintillanti del muscolo, dell'osso, del midollo del filosofo. A ogni colpo, il clown estraeva l'ascia con uno strattone e il corpo di Quaid sobbalzava come un burattino.

Quaid urlava. Quaid pregava. Quaid blandiva.

Il clown non sentiva una parola.

Udiva solo il rumore nella sua testa: fischi, grida, gemiti, ronzii. Si era rifugiato in un antro dove nessun argomento razionale, nessuna minaccia, avrebbe mai più potuto stanarlo. Dove il battito del suo cuore era legge e il fluire del sangue musica.

Come danzava, quel ragazzo sordo. Danzava come un mentecatto nel vedere il suo torturatore annaspare come un pesce, nel vedere la depravazione del suo intelletto messa per sempre a tacere. Come zampillava il sangue! Come sgorgava e sprizzava!

Il clown rise davanti a quello spettacolo divertente. C'era da divertirsi tutta notte. L'accetta sarebbe stata per sempre la sua amica, intelligente e saggia. Avrebbe tagliato e scorticato, avrebbe affettato e amputato, ma comunque lasciando in vita quell'uomo, se fossero stati abbastanza abili. Lasciarlo in vita per molto, molto tempo.

Steve era contento come una pasqua. Avevano tutta la notte davanti a loro e tutta la musica che poteva desiderare stava risuonando nella sua testa.

E Quaid seppe, incontrando lo sguardo assente del clown attraverso una cortina di sangue, che al mondo c'era qualcosa di peggiore della paura. Peggiore della paura stessa.

C'era il dolore senza speranza di guarigione. C'era la vita che rifiutava di spegnersi, anche dopo che la mente aveva pregato il corpo di cessare di esistere. Ma c'era di peggio. C'erano i sogni che diventavano realtà.

 

La sfida dell'inferno

 

L'Inferno sbucò fuori nelle strade e nelle piazze di Londra, quel settembre, gelido dalle profondità del Nono Cerchio. Così gelido che il caldo torrido di un'estate indiana non avrebbe potuto riscaldarlo. Aveva preparato i suoi piani più attentamente che mai, piani che erano quel che erano e fragili. Questa volta, forse era stato un tantino più pignolo del solito, aveva controllato gli ultimi dettagli due o tre volte, per essere sicuro di avere tutte le possibilità di vincere questa competizione vitale.

Non gli era mai mancato lo spirito competitivo. Aveva contrapposto il fuoco alla carne migliaia e migliaia di volte nel corso dei secoli, qualche volta vincendo, il più delle volte perdendo. Le scommesse erano dopotutto la componente fondamentale dei suoi progressi. Se non fosse stato per il bisogno pressante del genere umano di gareggiare, contrattare e scommettere, il pandemonio avrebbe benissimo potuto crollare per mancanza di materia prima. Gare di ballo, corse dei cani, giochi d'azzardo: per gli inferi non c'era differenza. Tutto un gioco in cui, se avesse giocato con sufficiente arguzia, poteva guadagnare un'anima o due. Ecco perché l'Inferno era venuto a Londra in quel limpido e luminoso giorno di settembre: per partecipare a una gara e vincere, se poteva, un numero sufficiente di anime per tenersi occupato con la dannazione per un altro secolo.

 

Cameron sintonizzò la radio. La voce del commentatore andava e veniva come se stesse parlando dal Polo Nord invece che dalla cattedrale di St. Paul. Mancava ancora una buona mezz'ora all'inizio della gara, ma Cameron voleva ascoltare i primi commenti pieni di enfasi e di eccitazione, per sentire ciò che dicevano del suo ragazzo.

"... L'atmosfera è elettrica... forse decine di migliaia lungo la strada..."

La voce scomparve: Cameron prese a smanettare la manopola finché le scemenze furono di nuovo udibili.

"... È stata considerata la corsa dell'anno. E che giornata! Non è così, Jim?"

"Proprio così, Mike..."

"Questa era la voce del grande Jim Delaney, che è lassù in cielo, a bordo dell'Occhio Celeste e seguirà la gara lungo la strada, dandoci un resoconto panoramico. Non è vero, Jim?"

"Proprio così, Mike..."

"Bene, c'è un gran fermento dietro la linea. Gli atleti si stanno riscaldando per la partenza. Vedo Nick Loyer laggiù, porta il numero tre e devo dire che sembra proprio in gran forma. Quando è arrivato mi ha detto che solitamente non gli piace correre la domenica, ma ha fatto un'eccezione per questa gara perché, ovviamente, è una manifestazione di beneficenza e il ricavato sarà devoluto alla Ricerca sul Cancro. Joel Jones, la nostra Medaglia d'Oro degli ottocento metri è qui e correrà contro il suo grande rivale, Frank McCloud. E accanto ai grandi nomi, facce nuove che non conosciamo ancora bene. Con il numero cinque, il sudafricano Malcolm Voight e, per finire, Lester Kinderman, che è stato ovviamente il vincitore a sorpresa della maratona in Austria l'anno scorso. E devo dire che sembrano tutti freschi come delle rose, in questo stupendo pomeriggio di settembre. Non potevamo chiedere un giorno migliore. Non è così, Jim?"

 

Joel aveva fatto dei brutti sogni.

"Andrà tutto bene. Smettila di preoccuparti," gli aveva detto Cameron.

Lui però non si sentiva affatto bene. Aveva un peso alla bocca dello stomaco. Ma non era nervosismo da pregara. Era abituato a quelle sensazioni e sapeva come affrontarle. Due dita in gola e via, questo era il rimedio che aveva trovato. Farla finita subito e non pensarci più. No, questo non era il solito nervosismo, neanche qualcosa di simile. Era una sensazione più profonda, per una partenza, come se i visceri al centro del suo corpo, alla radice, stessero ribollendo.

Cameron non era affatto comprensivo.

"È solo una gara di beneficenza, non sono le Olimpiadi," aveva tagliato corto lanciandogli un'occhiata. "Datti un contegno."

Questa era la tecnica di Cameron. Il tono dolce della sua voce era fatto per adulare, invece lui se ne serviva per tiranneggiare. Senza quella durezza non ci sarebbero state medaglie d'oro, né folle acclamanti, né tanto meno ammiratrici. Secondo un giornale Joel era il volto nero più amato d'Inghilterra. Era bello essere salutato come amico da persone che non aveva mai visto. Gli piaceva essere oggetto d'ammirazione, anche se questa si fosse poi dimostrata di breve durata.

"Ti adorano," aveva constatato Cameron. "Dio solo sa perché, ma ti adorano."

Poi era scoppiato in una risata, la sua piccola crudeltà l'aveva detta.

"Andrà tutto bene, figliolo," aveva detto. "Vai fuori e corri per la tua vita."

Adesso, in pieno giorno, Joel diede un'occhiata al resto dei concorrenti e si sentì un po' più sollevato. Kinderman aveva una grande resistenza, ma gli mancava lo sprint finale nelle gare di mezzofondo. La tecnica della maratona richiedeva capacità del tutto diverse. Inoltre era così miope che portava un paio di occhiali con lenti così spesse che gli davano l'aria della rana stupefatta. Lui non rappresentava nessun pericolo.

C'era Loyer. Era bravo, ma questa non era decisamente la sua distanza. Era un ostacolista e qualche volta uno sprinter. I quattrocento metri erano il suo limite ed anche in questo caso non si sentiva a suo agio.

Poi c'era Voight, il sudafricano. Be', non si sapeva molto di lui. Un uomo indubbiamente in buone condizioni, a giudicare dal suo aspetto; meglio tenerlo d'occhio giusto in caso avesse in serbo qualche sorpresa. Ma il problema reale della gara era McCloud.

Joel aveva corso contro Frank McCloud detto il "Lampo" tre volte. Due volte l'aveva battuto, lasciandogli il secondo posto, una volta (e fu penoso) le sorti si ribaltarono. E il giovane Frankie aveva qualche conto da sistemare: soprattutto la sconfitta alle Olimpiadi. Non aveva apprezzato la medaglia d'argento. Frank era l'uomo da tenere d'occhio. Gara di beneficenza o no, McCloud avrebbe corso al meglio, per la folla e per il suo orgoglio. Stava già provando la posizione di partenza sulla linea, le orecchie praticamente tese. Era Lampo il pericolo, non vi erano dubbi.

Joel si accorse che Voight lo stava guardando: che strano. I concorrenti era raro persino che si sfiorassero prima di una gara, era una sorta di riservatezza. Il volto dell'uomo era pallido ed era già un po' stempiato. Doveva essere sulla trentina, ma aveva un fisico più giovanile, più asciutto. Gambe lunghe, grandi mani. Un corpo in un certo qual senso sproporzionato rispetto alla testa. Quando i loro occhi s'incontrarono, Voight volse lo sguardo altrove. La catenina che portava al collo colse un raggio di sole ed il crocefisso scintillò mentre dondolava lievemente sul petto.

Anche Joel aveva con sé un portafortuna. Lo teneva nascosto nella cintura dei pantaloncini, era una ciocca di capelli di sua madre, che lei stessa aveva intrecciato per lui più di una decina di anni prima, in occasione della sua prima grande gara. L'anno dopo era ritornata alle Barbados dove era morta. Un grande dolore: una perdita indimenticabile. Senza Cameron, sarebbe crollato.

Cameron osservò i preparativi dai gradini della cattedrale. Aveva progettato di vedere la partenza, poi in bicicletta sarebbe andato attorno allo Strand per godersi la parte finale della corsa. Sarebbe arrivato molto prima dei concorrenti e poteva seguire la gara alla radio. Si sentiva proprio bene quel giorno. Il suo ragazzo era in ottima forma, nausea o mica nausea e la gara era un modo ideale per tenerlo in uno spirito competitivo senza stressarlo troppo. Ovviamente era una bella distanza attraverso Ludgate Circus, lungo Fleet Street oltre Temple Bar fino a Strand, poi attraverso Trafalgar e giù Whitehall fino al Parlamento. Si doveva correre sull'asfalto inoltre, ma era una buona esperienza per Joel e per dì più lo avrebbe impegnato un tantino, cosa che era utile. Aveva la stoffa del maratoneta, quel ragazzo, e Cameron lo sapeva. Non era mai stato uno sprinter, non riusciva a mantenere il passo con sufficiente accuratezza. Aveva bisogno di una distanza e di tempo, per trovare il suo ritmo, per trovare un equilibrio ed elaborare poi le sue tattiche. Sugli ottocento metri correva con estrema naturalezza: la sua andatura era un modello di economia, il ritmo dannatamente quasi perfetto. Ma più di ogni altra cosa, aveva coraggio. Il coraggio gli aveva fatto vincere la medaglia d'oro e il coraggio avrebbe continuato a farlo giungere primo all'arrivo. Questo era ciò che rendeva Joel diverso. Un sacco di fenomeni dal punto di vista tecnico andavano e venivano, ma senza il coraggio a sostenere quelle capacità, non servivano a nulla. Rischiare quando valeva la pena di rischiare, correre finché il dolore annebbiava la vista, questo ti rende speciale e Cameron lo sapeva. Gli piaceva pensare che avesse preso un po' da lui.

Oggi, il ragazzo era meno che felice. Le donne erano il cruccio di Cameron. C'erano sempre problemi con le donne, soprattutto con la reputazione di "giovane di belle speranze" che Joel si era guadagnato. Aveva cercato di spiegargli che avrebbe avuto tutto il tempo di farsi delle belle scopate quando la sua carriera sarebbe terminata, ma Joel non era interessato al celibato e Cameron del resto non lo biasimava del tutto.

La pistola venne alzata e il segnale della partenza fu sparato. Una piuma di fumo azzurrognolo seguita da un suono che assomigliava più a un tappo sturato che a un bang. Lo sparo scosse i piccioni che dalla cattedrale di St. Paul si levarono in stormo, interrotti nel loro atto di devozione.

Joel fece un'ottima partenza. Pulita, precisa e veloce.

La folla cominciò immediatamente a scandire il suo nome, voci alle sue spalle, voci di lato, uno scoppio di entusiasmo affettuoso.

Cameron rimase a guardare i primi venti metri, mentre i concorrenti si sistemavano nell'ordine di marcia. Loyer apriva il gruppo, ma Cameron non era sicuro se si trovasse lì per scelta o per caso. Joel era dietro McCloud, che a sua volta era alle spalle di Loyer. Non c'è fretta, ragazzo, disse Cameron e sgattaiolò via dalla linea di partenza. Aveva legato la bicicletta in Paternoster Row, a un minuto dalla piazza. Aveva sempre odiato le macchine: strumenti blasfemi, strumenti che rendevano schiavi, erano inumani e anticristiani. Con una bicicletta si era padroni di se stessi. Non era quello il massimo che un uomo potesse chiedere?

"... Ed è stata una partenza straordinaria. Tutto fa pensare a una gara straordinaria. Stanno già attraversando la piazza e la folla sta impazzendo qui. In realtà più che a una Gara di Beneficenza assomiglia a Giochi Europei. Da lassù che impressione fa, Jim?"

"Be', Mike, riesco a vedere un lungo cordone di folla fino a Fleet Street. La polizia mi ha chiesto di avvisare le persone di non cercare di venire con la macchina per vedere l'arrivo, perché ovviamente tutte le strade sono state chiuse per l'avvenimento e se si cerca di entrare con la macchina si rischia di non arrivare da nessuna parte."

"Chi è in testa adesso?"

"Be', Nick Loyer sta decisamente dando il passo in questa fase della corsa, anche se sappiamo bene che ci saranno molte mosse tattiche su questo tipo di distanza. Il percorso è più lungo di un normale mezzofondo ma è inferiore alla maratona, e questi uomini sono tutti degli strateghi e ognuno di loro cercherà di lasciare che l'altro dia il passo nelle prime fasi."

Cameron diceva sempre: lascia che gli altri facciano gli eroi. Era stata una dura lezione per Joel da imparare. Quando il colpo partiva, era difficile non sfruttare al massimo le proprie risorse, non scattare all'improvviso come una molla trattenuta, esaurire tutte le energie nei primi duecento metri senza lasciar nulla in riserva.

È facile essere un eroe, era solito dire Cameron, ma non è intelligente, non è affatto intelligente. Non sprecare il tempo a fare l'esibizionista, lascia che i Supermen abbiano il loro momento di gloria. Stai attaccato al gruppo, ma tieni sempre una certa distanza. Meglio essere festeggiati all'arrivo come vincitori, piuttosto che si dica di te che sei stato un generoso perdente.

Vincere. Vincere. Vincere.

A tutti i costi. A quasi tutti i costi.

Vincere.

L'uomo che non vuole vincere non è mio amico, diceva. Se vuoi correre per il piacere di correre, per lo spirito sportivo, fallo con qualcun altro. Solo gli studenti credono alla stronzata che è una gioia partecipare a una gara. Non c'è gioia per i perdenti, ragazzo. Che cosa ho detto?

Non vi è gioia per i perdenti.

Sii spietato. Gioca secondo le regole, ma fino al limite estremo. Finché puoi spingere, spingi. Non lasciare che qualche altro figlio di puttana ti dica il contrario. Che cosa ho detto?

Vincere.

In Paternoster Row il clamore si era ammutolito e le ombre degli edifici e dei palazzi bloccavano il sole. Faceva quasi freddo. I piccioni svolazzavano ancora, incapaci di chetarsi adesso che erano stati detronizzati dai loro trespoli. Erano gli unici occupanti delle strade laterali. Il resto del mondo, almeno così sembrava, stava seguendo la gara. Cameron liberò la bicicletta, si infilò in tasca catena e lucchetto e saltò su. Era in gamba per i suoi cinquant'anni, pensò, nonostante il vizio di fumare sigari da quattro soldi. Accese la radio. La ricezione era pessima, ostacolata dagli edifici; era un gracchiare unico. A cavalcioni sulla bici cercò di sintonizzarla meglio. Ci fu un piccolo miglioramento.

"... E Nick Loyer è già stato superato."

Era successo in fretta. Loyer non era più al massimo della forma da almeno due o tre anni. Era tempo di gettare le scarpette chiodate e lasciare che i più giovani andassero avanti. Avrebbe dovuto farlo, anche se sarebbe stato doloroso. Cameron ricordava perfettamente come si era sentito a trentatré anni, quando aveva capito che i suoi anni migliori erano finiti. Era stato come avere un piede nella fossa, un chiaro segno di come il corpo sfiorisca velocemente e inizi a decadere.

Mentre lasciava dietro di sé le ombre e si inoltrava in una via più soleggiata, una Mercedes nera, guidata da un autista, lo superò così silenziosamente che avrebbe potuto essere alimentata dal vento. Cameron intravide di sfuggita i passeggeri. In uno di loro riconobbe l'uomo con cui Voight si era intrattenuto a parlare prima dell'inizio della gara, un individuo dal volto smilzo, sulla quarantina, con la bocca così serrata che le labbra avrebbero potuto essere state tolte chirurgicamente.

Accanto a lui sedeva Voight.

Assurdo, anche se la faccia che sbirciava dal finestrino fumé sembrava proprio quella di Voight. Indossava persino la tenuta sportiva.

A Cameron non piacque per niente lo sguardo di quel tipo. Aveva visto il sudafricano proprio cinque minuti prima, alla partenza. Perciò chi era questo? Un doppio, ovviamente. Quella faccenda, in qualche modo, sapeva d'imbroglio. Puzzava lontano un miglio.

La Mercedes stava già scomparendo dietro una curva. Cameron spense la radio e cominciò a pedalare di gran carriera dietro l'auto e a sudare sotto il mite sole.

La Mercedes avanzava a fatica per le strette viuzze, ignorando tutti i sensi unici mentre procedeva. L'andatura lenta favoriva Cameron, che riusciva a tenere d'occhio la macchina senza essere notato dai suoi occupanti, anche se lo sforzo stava cominciando ad accendergli un fuoco nei polmoni.

In uno stretto vicolo senza nome, a ovest di Fetter Lane, dove le ombre erano particolarmente dense, la Mercedes si fermò. Cameron, nascosto dietro un angolo, a una ventina di metri dalla macchina, vide l'autista aprire la portiera e l'uomo senza labbra, con il sosia di Voight, discendere ed entrare in un anonimo edificio. A quel punto Cameron gettò la bici contro il muro e li seguì.

Non si sentiva volare una mosca. A quella distanza il boato della folla giungeva come un mormorio. Avrebbe potuto essere un altro mondo quella strada. Le ombre fugaci degli uccelli, le finestre degli edifici murate, l'intonaco scrostato, l'odore di marcio che aleggiava nell'aria stagnante. Nel canale di scolo c'era un coniglio morto, un coniglio nero con un collare bianco, un animaletto da salotto che qualcuno aveva perso. Le mosche andavano e venivano sul cadavere, incerte fra lo stupore e la voracità.

Cameron si avvicinò con passo furtivo alla porta aperta, più silenziosamente che poté. Così come stavano le cose non aveva nulla da temere. Il trio si era dileguato giù nello scuro atrio della casa già da un po'. L'aria era fredda e sapeva di muffa. All'apparenza impavido, ma in realtà con un po' di paura, Cameron entrò nel buio edificio.

La tappezzeria nell'atrio aveva il colore della merda, così come l'intonaco. Era come camminare in un budello. Nelle budella di un cadavere, fredde e piene di escrementi. Di fronte, la scala era crollata, impedendo l'accesso ai piani superiori. Non erano andati di sopra, bensì sotto.

La porta che conduceva nello scantinato era accanto alla scala defunta e Cameron sentiva delle voci che provenivano da giù.

Chi ha tempo non aspetti tempo, pensò, e aprì la porta tanto quanto bastava per scivolare nel buio che stava al di là. Si gelava. L'ambiente non era semplicemente freddo, né umido, si congelava letteralmente. Per un attimo pensò di aver messo piede in una cella frigorifera. L'alito si condensava: i suoi denti volevano battere.

Non poteva tornare indietro, pensò. Cominciò a scendere i gradini resi scivolosi da una patina di ghiaccio. L'oscurità non era poi così tremenda. In fondo alle scale, parecchio più in giù, tremolava una pallida luce, una misera fiammella protesa verso il giorno. Cameron lanciò uno sguardo accorato alla porta dietro di sé. Era estremamente invitante, ma era curioso, tanto curioso. Non rimaneva altro da fare che scendere.

Il puzzo che impregnava quel luogo lo infastidiva. Aveva un odorato pessimo e il palato era anche peggio, come amava ricordargli sua moglie. Era solita dire che non riusciva a distinguere tra l'aglio e una rosa e probabilmente era vero. Ma l'odore che regnava in quel baratro, gli ricordava qualcosa, qualcosa che portava alla luce la sua acidità di stomaco.

Capre. Puzzava, sì, voleva dirglielo subito, come aveva fatto a non ricordarselo, puzzava di capre.

Era quasi in fondo alle scale, a dieci, forse venti metri sotto terra. Le voci erano ancora lontane, dietro una seconda porta.

Ora si trovava in una stanzetta le cui pareti erano state malamente imbiancate ed erano coperte di graffiti osceni, che raffiguravano perlopiù atti sessuali. Sul pavimento, un candelabro a sette braccia. Delle misere candele solo due erano accese e bruciavano con una fiamma languida che era quasi blu. L'odore di capra si era fatto più forte adesso e si mescolava con un tanfo dolciastro così stomachevole, che sembrava di essere in un bordello turco.

Due porte conducevano fuori della stanza e dietro una di queste Cameron udì la conversazione in corso. Con scrupolosa cautela attraversò il pavimento scivoloso fino alla porta, sforzandosi di dare un senso ai mormorii che uscivano. In quelle voci c'era un senso di urgenza.

"...alla svelta..."

"... le giuste capacità..."

"Bambini, bambini..."

Risa.

"Io credo che... domani... tutti noi..."

Ancora risa.

Improvvisamente le voci sembrarono cambiare direzione, come se gli astanti stessero ritornando verso la porta. Cameron fece tre passi indietro sul pavimento ghiacciato, evitando per poco di carambolare sul candelabro. Le fiamme crepitarono e frusciarono nella stanza al suo passaggio.

Aveva due possibilità, o le scale o l'altra porta. Le scale rappresentavano l'estremo ripiego. Se le risaliva si sarebbe messo in salvo, ma non avrebbe mai conosciuto la verità. Non avrebbe mai conosciuto la ragione di quel freddo, di quelle fiamme azzurrognole, di quell'odore di capre. La porta era un possibilità.

Tornò indietro, gli occhi incollati sull'altra porta, lottò con la maniglia di ottone terribilmente fredda. Girò con qualche difficoltà, poi Cameron sparì di colpo mentre l'altra porta si apriva. I due movimenti erano perfettamente sincronizzati. Dio era con lui.

Mentre richiudeva la porta si rese conto di aver commesso un errore. Dio non era affatto con lui.

Lame di ghiaccio gli penetrarono nella testa, nei denti, negli occhi, nelle dita. Si sentì come se fosse stato gettato nudo al centro di un iceberg. Il sangue sembrava essersi fermato nelle vene; la saliva cristallizzata; il muco sulle pareti del naso pungeva mentre si trasformava in ghiaccio. Era come se il freddo lo avesse paralizzato: non riusciva nemmeno a girarsi.

Muoveva a malapena le articolazioni e con dita così rattrappite che avrebbero potuto tagliargliele senza che sentisse nulla, cercò a tentoni l'accendino.

Gli si era incollato alla mano, il sudore che gli imperlava le dita si era trasformato in ghiaccio. Cercò di accenderlo, per combattere il buio, per combattere il freddo. Con riluttanza lasciò uscire una fiammella crepitante.

La stanza era grande: una caverna di ghiaccio. Le pareti e il soffitto incrostato, scintillavano e brillavano. Stalattiti di ghiaccio, affilate come lame, pendevano sopra la sua testa. Il pavimento su cui stava in equilibrio precario degradava verso un buco al centro della stanza. Largo un metro e mezzo o due, i bordi e le pareti erano così incrostati di ghiaccio che si sarebbe detto che un fiume si era arrestato, mentre si rovesciava nell'oscurità.

Pensò a Xanadu, un poema che conosceva a memoria. Visioni di un'altra Albione...

 

"Dove Alph il fiume sacro scorre,

Attraverso caverne smisurate per l'uomo,

Verso un mare senza sole..."

 

Se c'era veramente un mare là sotto, era un mare di ghiaccio. Era la morte per sempre.

Altro non poté fare per rimanere in piedi, per evitare di scivolare verso l'ignoto. La fiammella tremolò mentre una folata di aria fredda entrò nella stanza.

"Merda," disse Cameron mentre ripiombava nel buio.

Se fosse stata quella parola a insospettire il trio fuori, o se fosse stato Dio che lo aveva completamente abbandonato in quel momento, invitandoli ad aprire la porta, non lo avrebbe mai scoperto. Ma mentre la porta si spalancava, Cameron perse l'equilibrio. Troppo intorpidito e troppo gelato per evitare di cadere, crollò sul pavimento ghiacciato mentre l'odore di capra impregnava la stanza.

Cameron si girò. Il sosia di Voight era sulla soglia, così come l'autista e il terzo uomo. Quest'ultimo indossava un cappotto fatto, apparentemente, con numerose pelli di capra. Gli zoccoli e le corna erano ancora attaccati. Il sangue sul pelo era scuro e lattiginoso.

"Che cosa fa qui, Mister Cameron?" chiese l'uomo ricoperto di pelle di capra.

Cameron faceva fatica a parlare, l'unica sensazione che avvertiva era una fitta di angoscia al centro della fronte.

"Che diavolo sta succedendo?" disse, attraverso labbra quasi troppo gelide per muoversi.

"Esatto, Mister Cameron," rispose l'uomo. "Stanno succedendo cose del diavolo."

 

Mentre superavano St. Mary-le-Strand, Loyer guardò dietro di sé e inciampò. Joel, che era a circa tre metri di distanza da quelli che conducevano la gara, capì che l'uomo non ce la faceva più. E così in fretta anche. Ma c'era qualcosa di strano. Rallentò il passo, lasciando che McCloud e Voight lo superassero. Non c'era gran fretta. Kinderman era abbastanza indietro e non era in grado di competere con questi veloci ragazzi. Lui, senza dubbio, era la tartaruga in questa gara. Loyer fu superato da McCloud, poi da Voight e alla fine da Jones e Kinderman. Il fiato lo aveva abbandonato all'improvviso e le gambe si erano fatte pesanti come piombo. Ma la cosa peggiore era che vedeva l'asfalto sotto le sue scarpe spaccarsi e fendersi e dita, come bambini amorevoli, che spuntavano fuori del terreno per toccarlo. Nessun altro le vedeva, almeno così sembrava. La folla continuava semplicemente a urlare, mentre quelle mani irreali fuoriuscivano dai loro sepolcri di asfalto e si aggrappavano a lui. Crollò nelle loro braccia morte, stremato, la sua gioventù spezzata e la sua forza esaurita. Le dita imploranti dei morti continuavano a tirarlo, molto tempo dopo che i dottori l'avevano soccorso, visitato e calmato.

Lui sapeva perché, ovviamente, mentre giaceva sul caldo asfalto e loro lo tormentavano. Si era girato a guardare. Quello li aveva fatti venire. Aveva guardato...

"E dopo il crollo sensazionale di Loyer la gara è aperta. Frank Lampo McCloud ora sta dando il passo. Si sta allontanando veramente a gran velocità dall'altro concorrente, Voight. Joel Jones è anche più indietro, non sembra che riesca a tenere il passo con gli altri, Che cosa ne pensi, Jim?"

"Be', direi che le possibilità sono due, o è già esaurito o sta aspettando che gli altri si stanchino. Ricorda che è la prima volta che corre su questa distanza..."

"Sì, Jim..."

"Questo potrebbe giocare a suo sfavore. Una cosa è certa però, dovrà darsi un gran da fare per migliorare la sua terza posizione."

Joel aveva un capogiro. Per un attimo, mentre osservava Loyer che cominciava a perdere terreno in gara, lo aveva sentito pregare ad alta voce, pregare Dio che lo salvasse. Joel era stato l'unico a udire quelle parole...

 

"Avvegnaché io camminassi nella valle

dell'ombra della morte,

io non temerei male alcuno; perciocché tu sei meco;

la tua bacchetta e la tua verga mi consolano..."

 

Il sole era più cocente adesso e Joel stava cominciando a sentire le voci familiari dei suoi arti stanchi. Correre sull'asfalto era pesante per i piedi e per le articolazioni, ma non al punto da portare un uomo a pregare. Cercò di dimenticare la disperazione di Loyer e di concentrarsi sulla gara.

C'era ancora un bel tratto da percorrere, non erano neanche a metà. C'era tutto il tempo per raggiungere gli eroi: tutto il tempo.

Mentre correva, la sua mente ritornò pigramente alle preghiere che sua madre gli aveva insegnato, nel caso ne avesse bisogno, ma gli anni le avevano cancellate: non c'erano più.

"Il mio nome," disse l'uomo vestito di pelli di capre, "è Gregory Burgess. Membro del parlamento. Non credo che mi conosca. Cerco di non dare nell'occhio."

"Membro del parlamento?" ripetè Cameron.

"Sì. Indipendente. Molto indipendente."

"Quello è il fratello di Voight?"

Burgess guardò il doppione di Voight. Non stava nemmeno tremando in quel freddo tremendo, nonostante indossasse semplicemente una leggera canottiera e un paio di calzoncini.

"Il fratello?" disse Burgess. "No, no. Lui è il mio... qual è la parola? Familiare."

La parola gli ricordò qualcosa, ma Cameron non era istruito. Che cos'era un familiare?

"Mostraglielo," disse Burgess con fare magnanimo. La faccia di Voight tremò, la pelle sembrò raggrinzire, le labbra si accartocciarono scoprendo i denti che a loro volta si sciolsero in una sostanza lattiginosa che si riversava in un esofago che si stava già trasformando in una colonna d'argento sfavillante. Il volto non era più umano, non assomigliava neanche più lontanamente a un mammifero. Era diventato un ventaglio di coltelli le cui lame brillavano alla luce della candela attraverso la porta. Quell'immagine non durò che un attimo, poi iniziò di nuovo a mutare, i coltelli si fusero, si fecero più scuri, spuntarono dei peli, apparvero degli occhi che si gonfiarono come palloni. Dalla nuova testa spuntarono delle antenne. Dal torbidume della trasfigurazione furono espulse delle mandibole e la testa di un'ape, enorme e perfettamente intricata, ora era posata sul collo di Voight.

Burgess ovviamente si divertiva un mondo e applaudiva con mani vellutate.

"Sono tutt'e due miei familiari," disse, indicando l'autista, che si tolse il cappello e lasciò ricadere una chioma di capelli ramati sulle spalle. Era di una bellezza straordinaria, un volto per cui si sarebbe data volentieri la vita. Ma era un'illusione, come l'altro. Indubbiamente capace di infinite trasformazioni.

"Sono tutt'e due miei, ovviamente," disse Burgess orgoglioso.

"Che cosa?" fu tutto ciò che Cameron riuscì a dire e si augurò che potesse riassumere tutte le domande che gli affollavano la mente.

"Io servo l'Inferno, Mister Cameron, e a sua volta l'Inferno mi rende dei servigi."

"Inferno?"

"Dietro di lei, c'è una delle entrate che porta al Nono Cerchio. Presumo che abbia sentito parlare di Dante.

 

"Ecco Dite," dicendo, "ed ecco il loco

Ove convien che di fortezza t'armi."

 

"Perché è qui?"

"Per disputare questa gara. O diciamo, piuttosto, che il mio terzo familiare sta già correndo. Questa volta non verrà battuto. Questa volta è la sfida dell'Inferno, Mister Cameron e non ci defrauderanno del premio."

"Inferno," ripeté Cameron.

"Ci crede, non è vero? Lei è un fedele praticante. Prega ancora prima di mangiare, come qualsiasi anima che vive sotto il timore di Dio. Per paura di rimanere soffocato mentre mangia."

"Come fa a sapere che prego?"

"Me l'ha detto sua moglie. Oh, sua moglie mi ha parlato molto di lei, Mister Cameron, si è veramente aperta con me, molto accomodante. Un'analista incallita, in seguito alle mie attenzioni. Mi ha dato molte... informazioni. Lei è un socialista, non è così? Come suo padre."

"Ah, adesso anche la politica..."

"Oh, la politica è il cuore della controversia, Mister Cameron. Senza politica saremmo preda dell'inciviltà, non crede? Persino l'Inferno ha bisogno di ordine. Nove grandi cerchi: un ordinamento impeccabile di punizioni. Guardi giù. Controlli lei stesso."

Cameron poteva sentire la voragine alle sue spalle: non aveva bisogno di guardare.

"Noi siamo per l'ordine, sa? Non per il caos. Questa è solo propaganda celeste. E sa che cosa vinceremo?"

"Ma è una gara di beneficenza."

"La beneficenza è la cosa meno importante. Noi non disputeremo questa gara per salvare il mondo dal cancro. Noi la disputiamo per avere il comando."

Cameron non afferrò appieno il concetto.

"Comando," ripetè.

"Ogni cento anni viene fatta questa gara che parte da St. Paul fino al palazzo di Westminster. Spesso si è tenuta nel cuore della notte, senza sfarzi, senza applausi. Oggi viene disputata in pieno giorno e seguita da migliaia di persone. Ma indipendentemente dalle circostanze, è sempre la stessa gara. I vostri atleti contro uno dei nostri. Se vincete voi, vi sarà un altro secolo di democrazia. Se vinciamo noi... come accadrà... la fine del mondo così come voi lo conoscete."

Dietro la nuca Cameron sentì una vibrazione. L'espressione di Burgess era repentinamente cambiata. La sicurezza di cui aveva fatto mostra aveva cominciato a inclinarsi, allo sguardo compiaciuto si era improvvisamente sostituito uno sguardo di nervosa eccitazione.

"Bene, bene," disse, le mani che sbattevano come le ali di un uccello. "Sembra proprio che stiamo per ricevere la visita delle potenze superiori. Veramente un gesto lusinghiero..."

Cameron si volse e sbirciò nel buco. Non importava quanto fosse curioso adesso. Era nelle loro mani. Poteva tranquillamente vedere tutto ciò che c'era da vedere.

Un'ondata di aria gelida salì dal cerchio nero e nell'oscurità del pozzo riuscì a intravedere una forma che si stava avvicinando. I suoi movimenti erano regolari e la faccia era rovesciata all'indietro per guardare al mondo.

Cameron riusciva a sentirne il respiro, vide l'apertura della sua faccia aprirsi e chiudersi nelle tenebre, ossa untuose che si bloccavano e si sbloccavano come la testa di un granchio.

Burgess era in ginocchio, i due familiari ai suoi lati appiattiti sul pavimento con la faccia a terra.

Cameron sapeva che non avrebbe avuto un'altra possibilità. Si alzò e controllando con molte difficoltà le gambe, barcollò verso Burgess che aveva gli occhi chiusi in riverente preghiera. Più per caso che non intenzionalmente il suo ginocchio colpì Burgess sotto la mascella mentre passava e l'uomo finì a gambe all'aria. Cameron uscì scivolando sul pavimento dalla caverna di ghiaccio e si infilò nell'altra stanza illuminata dalla candela.

Dietro di lui, la stanza era piena di fumo e di sospiri e Cameron, come la moglie di Lot che fuggiva dalla distruzione di Sodoma, si volse una sola volta per vedere la visione proibita dietro di sé.

Stava emergendo dal pozzo, la grigia massa riempiva il buco, illuminata da una radiosità che proveniva da sotto. Gli occhi, profondamente infossati nello scheletro della testa elefantina, incontrarono quelli di Cameron attraverso la porta aperta. Sembrarono toccarlo come un bacio, penetrandone i pensieri attraverso gli occhi.

Non era stato tramutato in una statua di sale. Distogliendo lo sguardo curioso da quel volto, attraversò come un fulmine la stanzetta e iniziò a salire le scale, due, tre gradini alla volta, cadendo e salendo, cadendo e salendo. La porta era ancora aperta. Al di là, la luce del mondo e il giorno.

Spalancò la porta e crollò nell'atrio, sentendo il calore che già cominciava a risvegliare i nervi ghiacciati. Dalle scale non giungeva alcun rumore: chiaramente avevano troppa soggezione del loro visitatore ultraterreno per seguirlo. Si trascinò lungo la parete dell'atrio, il corpo scosso da tremiti, i denti che battevano per il freddo.

Continuavano a non seguirlo.

Fuori la luce del giorno era accecante e cominciò a sentire l'esaltazione della fuga. Era dissimile da qualsiasi altra sensazione che avesse mai provato. Essere stato così vicino e tuttavia essere sopravvissuto. Dopotutto, Dio era rimasto con lui.

Tornò vacillando alla sua bicicletta, con la determinazione di interrompere la gara, di dire al mondo...

La sua bici non era stata toccata, il manubrio era caldo come le braccia di sua moglie.

Mentre ripiegava la gamba per salire, lo sguardo che aveva scambiato con l'Inferno prese fuoco. Il suo corpo, ignaro del calore nel cervello, continuò nel suo lavoro per un attimo, mettendo i piedi sui pedali e iniziando a pedalare.

Cameron sentì lo scoppio nella testa e seppe che era morto.

Lo sguardo, quell'occhiata dietro di lui...

La moglie di Lot.

Come la stupida moglie di Lot...

Il lampo guizzò fra gli occhi, più veloce del pensiero.

Il suo cranio si spaccò e il lampo, un biancore infuocato, schizzò fuori dalla fornace del suo cervello. Gli occhi avvizzirono nelle orbite come noci marce, dalla bocca e dalle narici eruttava fuoco. La combustione lo trasformò in una colonna di carne annerita nel giro di qualche secondo, senza una fiamma né un filo di fumo.

Il corpo di Cameron era completamente incenerito quando la bicicletta uscì di strada e andò a schiantarsi nella vetrina di un negozio e rimase lì come un fantoccio, il cranio vuoto fra i vestiti cinerei. Anche lui si era voltato a guardare.

 

La folla in Trafalgar Square era un fermento di entusiasmo. Applausi, lacrime e bandiere. Era come se quella piccola gara fosse diventata qualcosa di speciale per quelle persone: un rituale il cui significato era a loro incomprensibile. Tuttavia, istintivamente intuirono che c'era qualcosa di diabolico in quella giornata. Percepirono che le loro vite stavano sgattaiolando verso il Paradiso in punta di piedi. Soprattutto i bambini. Correvano lungo la strada, urlando benedizioni incoerenti, i volti accesi dalla paura. Alcuni scandivano il suo nome.

"Joel! Joel!"

Oppure se l'era immaginato? Si era immaginato anche la preghiera che usciva dalle labbra di Loyer e i segni sui volti radiosi dei bambini che si sporgevano per vedere passare i concorrenti?

Mentre svoltavano in Whitehall, Frank McCloud lanciò tranquillamente un'occhiata da sopra la spalla e l'Inferno lo prese con sé.

Fu una cosa improvvisa. Una cosa semplice.

Inciampò e sentì una mano di ghiaccio nel petto che gli stava stritolando la vita. Joel rallentò mentre si avvicinava all'uomo. Il volto era paonazzo: le labbra schiumavano.

"McCloud," disse e si fermò a fissare il volto scarno del suo rivale.

McCloud alzò lo sguardo da dietro un velo di fumo che aveva trasformato i suoi occhi grigi in ocra. Joel allungò una mano per aiutarlo.

"Non toccarmi," ringhiò McCloud. I capillari negli occhi si rigonfiarono e cominciarono a sanguinare.

"Crampi?" chiese Joel. "Sono i crampi?"

"Corri, bastardo. Corri," gli stava dicendo McCloud, mentre la mano nelle budella gli stava strappando la vita. Adesso trasudava sangue dai pori del viso e piangeva lacrime di sangue. "Corri. E non voltarti. Per l'amor del cielo, non voltarti!"

"Che cos'è?"

"Corri per la tua vita!" Le parole non erano una richiesta. Erano un imperativo.

Correre.

Né per una medaglia né per la gloria. Semplicemente per vivere.

Joel sollevò lo sguardo, improvvisamente conscio che c'era un qualche cosa dalla testa enorme alle sue spalle, ne sentiva l'alito gelido sul collo.

Alzò i tacchi e corse.

"... Be', le cose non stanno andando molto bene per gli atleti qui, Jim. Dopo il crollo così sensazionale di Loyer, ora anche Frank McCloud è caduto. Non ho mai visto nulla del genere, ma sembra che abbia scambiato qualche parola con Joel Jones, perciò dev'essere okay."

McCloud era già morto quando lo caricarono sull'ambulanza e putrefatto la mattina dopo.

Joel corse. Cristo, se corse. Il sole batteva inclemente sul suo volto, annacquando i colori della folla acclamante, i loro volti, le bandiere. Attorno a lui nient'altro che uno strato di rumore, svuotato di umanità.

Joel conosceva la sensazione che si stava impadronendo di lui, il senso di dislocazione che accompagnava la fatica e l'iperossigenazione. Stava correndo in un ribollimento di coscienza, di pensieri, di sudore, di sofferenza, stava correndo per se stesso.

Non era così brutto questo essere solo. Nella testa cominciarono a risuonare delle canzoni. Frammenti di inni, dolci frasi da canzoni d'amore, rime sconce. Il suo sé cominciò a oziare e la mente sognante, anonima e senza paure prese il sopravvento.

Davanti, annacquato dalla stessa pioggia bianca di luce, c'era Voight. Quello era il nemico, quella era la cosa da superare. Voight, con il suo crocefisso luminoso che dondolava al sole. Poteva farlo, sempre che non guardasse, sempre che non guardasse...

Dietro di sé.

 

Burgess aprì la portiera della Mercedes e saltò in macchina. Era stato perso tempo, tempo prezioso. Doveva essere al palazzo del parlamento, sulla dirittura di arrivo, pronto ad accogliere gli atleti. C'era una parte da recitare, in cui avrebbe simulato il volto mite e sorridente della democrazia. E domani? Non così mite.

Aveva le mani viscide per l'eccitazione e sul suo completo a righine era rimasto l'odore del cappotto fatto di pelle di capra che era obbligato a indossare ogni volta che andava in quella stanza. Tuttavia nessuno l'avrebbe notato e anche se così fosse stato, quale gentiluomo sarebbe stato così scortese da fargli notare che puzzava di capra?

Odiava la Camera Inferiore, il ghiaccio perenne, quel dannato buco spalancato con il suo suono distante di perdizione. Ma ora era tutto finito, aveva fatto le sue oblazioni, aveva mostrato la sua totale e continua adorazione del pozzo. Ora era tempo di raccogliere i frutti.

Durante il percorso, pensò a quanti sacrifici aveva fatto in nome della sua ambizione. Dapprima, piccole cose: gattini e gallinelle. Più tardi, aveva scoperto quanto avessero trovato ridicoli quei gesti. Ma all'inizio era innocente, non sapeva che cosa dare o come darlo. Cominciarono a fare le loro richieste in modo più esplicito con il passare degli anni e lui, nel tempo, aveva imparato a esercitare la professione di vendersi l'anima. Le sue automortificazioni erano studiate meticolosamente e rappresentate senza errori, anche se lo avevano lasciato senza capezzoli e gli avevano tolto ogni speranza di avere dei figli. Ne era valsa comunque la pena: il potere era arrivato gradatamente. Il massimo dei voti a Oxford, la moglie che superava qualsiasi tipo di fantasia libidinosa, un seggio in parlamento e presto, molto presto, il paese stesso.

I moncherini cauterizzati dei suoi pollici gli dolevano, come spesso accadeva quando era nervoso. Se ne succhiò oziosamente uno.

 

"... Bene, siamo alle battute finali di ciò che è stata veramente una gara infernale, eh, Jim?"

"Oh, sì, è stata veramente una rivelazione, non è così? Voight è decisamente l'outsider di questa gara e la sta portando a termine a tutta velocità e senza grande sforzo. Ovviamente, Jones dopo essersi inutilmente fermato a vedere Frank McCloud, che in realtà stava benissimo dopo quella brutta caduta, è rimasto indietro."

"La gara è persa per Jones, non è così?"

"Credo di sì. Credo che ormai per lui non ci sia più niente da fare."

"Non dimentichiamo, comunque, che questa è una gara di beneficenza."

"Ma certo. E in una situazione come questa non è importante se si vince o se si perde..."

"L'importante è come ci si comporta durante la gara."

"Giusto."

"Giusto."

"Stanno per doppiare la curva di Whitehall e saranno presto in vista del palazzo del parlamento. La folla sta incitando il suo beniamino, ma penso proprio che ormai sia una causa persa."

"Ricordati, però, che in Svezia aveva in serbo qualcosa di speciale."

"E vero. È vero."

"Forse lo farà ancora."

 

Joel correva e il divario tra lui e Voight andava accorciandosi. Si concentrò sulla schiena dell'uomo, i suoi occhi penetravano sotto la camicia, studiavano il ritmo alla ricerca di un punto debole.

Ci fu un rallentamento. L'uomo non era più veloce come prima. Il suo passo si era fatto irregolare, segno inconfondibile della fatica.

Poteva raggiungerlo. Con coraggio, poteva raggiungerlo...

E Kinderman. Si era dimenticato di Kinderman. Senza pensare, Joel lanciò uno sguardo sopra la spalla e guardò dietro di sé.

Kinderman era parecchio indietro, il suo passo da maratoneta regolare e immutato. Ma c'era qualcos'altro dietro Joel, un altro podista, che gli stava a ruota, spettrale, vasto.

Avvertì i suoi occhi e distolse lo sguardo, maledicendo la sua stupidità.

A ogni passo si avvicinava sempre più a Voight. Era abbastanza chiaro che ormai non ce la faceva più.

Joel sapeva per certo che poteva raggiungerlo, se si sforzava. Dimenticare il suo inseguitore, qualunque cosa fosse, dimenticare tutto tranne l'intento di superare Voight.

Ma la visione alle sue spalle non lo lasciava.

"Non voltarti": le parole di McCloud. Troppo tardi, l'aveva fatto. Meglio sapere allora chi era quel fantasma.

Guardò di nuovo.

Dapprima non vide nulla, solo Kinderman che correva. Poi, il podista fantasma apparve ancora una volta e Joel seppe che cosa aveva fatto crollare McCloud e Loyer.

Non era affatto un podista, né vivo né morto. Non era neanche umano. Una figura fumosa, con una voragine spalancata al posto della testa, era l'Inferno in persona che lo stava tallonando.

"Non voltarti."

La bocca, se di bocca si trattava, era aperta. Un alito gelido, che fece boccheggiare Joel, turbinava attorno a lui. Ecco perché Loyer aveva mormorato le sue preghiere mentre correva. Buon pro gli fece. La morte era comunque arrivata.

Joel guardò altrove, infischiandosene di vedere l'Inferno così vicino, cercando di ignorare l'improvvisa debolezza che sentiva alle ginocchia.

Ora, anche Voight stava guardandosi alle spalle. Aveva un aspetto tetro e turbato: Joel seppe in qualche modo che apparteneva all'Inferno, che l'ombra dietro di lui era il padrone di Voight.

"Voight. Voight. Voight..." pronunciava Joel a ogni passo.

Voight udì il suo nome.

"Negro bastardo," disse ad alta voce.

Il passo di Joel rallentò un po'. Due metri di distanza lo separavano dal podista dell'Inferno.

"Guarda... Dietro... Di te," disse Voight.

"Lo vedo."

"È... venuto... per... te..."

Le parole erano puro melodramma: bidimensionali. Lui era padrone del suo corpo, non era così? E non aveva paura dell'oscurità, ne era il ritratto. Non era quello che lo faceva meno che umano rispetto a tante altre persone? O forse più, molto più che umano; più sanguineo, più tenace, più carnale. Più braccia, più gambe, più testa. Più forza, più appetito. Che cosa poteva fare l'Inferno? Mangiarlo? Il suo palato avrebbe gustato qualcosa di ripugnante. Congelarlo? Era troppo focoso, troppo veloce, troppo vivo.

Nulla poteva averlo. Era un barbaro con i modi di un gentiluomo.

Né giorno né notte completamente.

Voight stava soffrendo: il dolore era presente nel respiro rantolante, nell'andatura scoordinata. Erano a soli cinquanta metri dai gradini e dalla linea di arrivo e Voight stava perdendo sempre più terreno. A ogni passo i concorrenti si avvicinavano sempre più.

A quel punto ebbe inizio uno scambio di battute.

"Ascol... ta... mi."

"Chi sei?"

"Il potere... Ti darò il potere... Lasciaci... solo... vincere..."

Joel adesso era pressoché al suo fianco.

"È troppo tardi."

Le sue gambe erano esaltate. La testa gli girava tanta era l'euforia. L'Inferno dietro di sé, l'Inferno accanto a sé: che cosa gl'importava? Poteva correre.

Superò Voight. Le sue articolazioni si muovevano come una macchina perfettamente sincronizzata.

"Bastardo. Bastardo. Bastardo..." urlava il familiare, la faccia contorta dal tormento della fatica e mentre Joel passava quel volto non tremolò forse? Non sembrò perdere per un attimo le fattezze umane?

Poi Voight rimase indietro e la folla acclamava e i colori davano di nuovo luce al mondo. Davanti c'era la vittoria. Non sapeva per quale causa ma c'era la vittoria.

E c'era Cameron, ora lo vedeva, era sui gradini accanto a un uomo che Joel non conosceva. Un uomo con un vestito a righe. Cameron sorrideva e gridava con insolito entusiasmo e gli faceva dei cenni...

Corse, se mai, un po' più veloce verso la linea di arrivo, la forza lusingata dalla vista di Cameron.

Poi quel volto sembrò cambiare. Era forse la foschia creata dalla calura che faceva brillare i suoi capelli? No, le sue guance si stavano gonfiando e c'erano macchie scure che diventavano sempre più scure sul collo, sulla fronte. Adesso i suoi capelli si stavano alzando dalla testa e dal suo capo si levava una luce cinerea tremolante. Cameron stava bruciando. Cameron stava bruciando e continuava a sorridere, continuava ad agitare la mano.

Joel sentì un'improvvisa disperazione.

Inferno dietro. Inferno davanti.

Quello non era Cameron. Cameron non poteva essere visto da nessuna parte, perciò Cameron era morto.

Lo sentì nella pancia. Cameron era morto: e quella funebre parodia che gli sorrideva e gli faceva festa, altro non era che la rappresentazione dei suoi ultimi momenti, riproposta per il piacere dei suoi ammiratori.

Joel vacillò perdendo il ritmo dell'andatura. Alle sue spalle udì l'alito di Voight, orribilmente pesante e vicino, sempre più vicino.

Tutto il suo corpo si rivoltò all'improvviso. Lo stomaco reclamò di vomitare ciò che conteneva, le gambe si ribellarono, la testa si rifiutò di pensare, anche solo di aver paura.

"Corri," disse a se stesso. "Corri. Corri. Corri."

Ma l'Inferno era davanti a lui, come poteva correre nelle braccia di una tale oscenità.

Voight aveva riaccorciato le distanze, gli si affiancò e lo colpì con il gomito mentre lo superava. La vittoria venne facilmente strappata a Joel: come un dolce a un bambino.

La linea di arrivo era a una dozzina di passi e Voight era di nuovo in testa. Quasi senza rendersi conto di ciò che stava facendo, Joel allungò un braccio e afferrò Voight mentre correva, prendendolo per la maglietta. Era uno scherzo, era chiaro a tutti nella folla. Ma che Inferno.

Strattonò violentemente Voight ed entrambi vacillarono. La folla si aprì mentre piroettavano fuori del tracciato cadendo a terra, Voight sopra Joel.

Il braccio di Joel, disteso per evitare un impatto troppo violento, venne schiacciato sotto il peso di entrambi i corpi. Intrappolato malamente, l'osso dell'avambraccio si spezzò. Joel sentì lo scricchiolio un attimo prima dello spasmo. Poi il dolore gli aprì la bocca in un urlo.

Sui gradini Burgess stava strillando come un ossesso. Quasi uno spettacolo a vedersi. Le telecamere stavano riprendendo la scena, i commentatori dicevano la loro. "Alzatevi! Alzatevi!" urlava l'uomo. Ma Joel aveva afferrato Voight con il braccio sano e per nulla al mondo l'avrebbe mollato.

I due rotolarono nel prato e di volta in volta il braccio di Joel veniva schiacciato, e conati di vomito gli risalivano dallo stomaco.

Il familiare che giocava il ruolo di Voight era esausto. Non si era mai sentito così stanco: non era preparato allo stress della gara che il suo padrone gli aveva ordinato di disputare. Il suo temperamento era fragile, il controllo di sé pericolosamente vicino alla rottura. Joel poteva sentire l'odore dell'alito sulla sua faccia ed era l'odore di una capra.

"Mostrati," disse.

Gli occhi della cosa avevano perso le pupille: adesso erano tutti bianchi. Joel rigurgitò un grumo di catarro e lo sputò in faccia al familiare.

Il volto si dissolse. Ciò che era sembrato carne diede vita a una nuova visione, una trappola divoratrice senza occhi né naso, né orecchie né capelli.

Tutt'attorno, la folla si ritrasse. La gente urlò; la gente svenne. Joel non vide nulla: udì solo le grida con soddisfazione. Questa trasformazione non era solo a suo beneficio: era di dominio pubblico. Tutti la stavano vedendo, tutti stavano vedendo la verità, la sporca, stupefacente verità.

La bocca era enorme e costellata di denti come le fauci di qualche pesce che vive nelle profondità degli oceani, ridicolmente grandi. Il braccio sano di Joel era sotto la mascella, e riusciva a malapena a tenerlo a bada, mentre gridava aiuto.

Nessuno si fece avanti.

La folla si teneva a una distanza ragionevole, sempre urlando, sempre con gli occhi fissi, restia a intervenire. Quell'incontro di lotta con il demonio, del resto, era solo uno sport da osservatori: loro non c'entravano.

Joel avvertì che le ultime forze lo stavano abbandonando: con il braccio non riusciva più a tenere a bada la bocca. Con disperazione sentì i denti sulla fronte e sul mento, li sentì conficcarsi nella carne e nelle ossa. Sentì, alla fine, la morte bianca invaderlo, mentre la bocca gli staccava la faccia con un morso.

Il familiare si levò dal cadavere con ciocche di capelli della testa di Joel che gli penzolavano fra i denti. Aveva sfilato il volto come una maschera, lasciando un guazzabuglio di sangue e muscoli contratti da spasmi. Nella cavità aperta della bocca di Joel, la radice della lingua sbattè e si dimenò, ormai incapace di pronunciare il suo dolore.

Burgess se ne infischiò di come appariva al mondo, la gara era tutto: una vittoria era sempre una vittoria comunque venisse vinta. E Jones, dopotutto, aveva barato.

"Qui!" urlò al familiare. "Obbedisci."

La cosa girò il volto cosparso di brandelli vischiosi e sanguinolenti.

"Vieni qui!" gli ordinò Burgess.

Erano a soli pochi metri di distanza: pochi passi dalla linea e la gara sarebbe stata vinta.

"Corri da me!" strillò Burgess. "Corri! Corri! Corri!"

Il familiare era stanco, ma riconobbe la voce del suo padrone. A lunghi balzi si avviò verso la linea, seguendo ciecamente i richiami di Burgess.

Quattro passi. Tre...

E Kinderman superò la linea del traguardo. Il miope Kinderman, un passo davanti a Voight, si aggiudicò la gara senza sapere la vittoria che si era guadagnato, senza nemmeno aver visto gli orrori che giacevano ai suoi piedi.

Non ci furono acclamazioni mentre oltrepassava la linea, nessuna congratulazione.

L'atmosfera intorno ai gradini sembrò oscurarsi e un gelo fuori stagione apparve nell'aria.

Scuotendo la testa in tono di scusa, Burgess cadde in ginocchio.

"Padre nostro che sei nei cieli, sia profanato il tuo nome..."

Un trucco così vecchio. Una risposta così ingenua.

La folla cominciò a indietreggiare. Alcune persone stavano già correndo. I bambini, conoscendo la natura dell'oscurità, essendone stati toccati di recente, erano i meno preoccupati. Presero per mano i loro genitori e li condussero via come agnellini, dicendo loro di non voltarsi. E i loro genitori cominciarono vagamente a ricordarsi dell'utero, del primo tunnel, della prima uscita dolorosa da un luogo santificato, la prima terribile tentazione di guardare indietro e morire. Con quel ricordo seguirono i loro figli.

Solo Kinderman sembrava intoccato. Era seduto sui gradini e si stava pulendo gli occhiali, sorridente perché aveva vinto, indifferente al grande freddo.

Burgess, sapendo che le sue preghiere erano insufficienti, girò le spalle e scomparve nel palazzo di Westminster.

Il familiare, abbandonato, rinunciò a ogni pretesa di apparire umano e divenne se stesso. Inconsistente, scialbo, sputò fuori la carne nauseabonda di Joel Jones. Mezzo masticata, la faccia del podista rotolò sul prato accanto al suo corpo. Il familiare si avviluppò nell'aria e tornò nel Cerchio che chiamava casa.

 

Nei corridoi del potere l'aria era stantia: non c'era traccia di vita né traccia di aiuto.

Rientrato, Burgess era in cattive condizioni e la sua corsa si tramutò ben presto in una passeggiata. A passo regolare, lungo i tetri corridoi, piedi pressoché silenziosi sul tappeto ben calpestato.

Non sapeva bene che cosa fare. Sicuramente l'avrebbero biasimato per non essere riuscito a predisporre un piano che prevedesse ogni evenienza, ma era sicuro che sarebbe riuscito a trovare un argomento convincente per scagionarsi. Avrebbe dato loro tutto ciò che volevano per il suo fallimento. Un orecchio, un piede. Non aveva nulla da perdere tranne qualche parte del suo corpo.

Ma doveva progettare la sua difesa con attenzione, perché loro odiavano la mancanza di logica. Se si fosse presentato con delle scuse raffazzonate, avrebbe rischiato la vita.

Dietro di sé c'era un grande freddo. Burgess sapeva che cos'era. L'Inferno l'aveva seguito lungo quei corridoi silenziosi, nel grembo stesso della democrazia. Sarebbe comunque sopravvissuto, fino a che non si fosse girato. Fintanto che avesse continuato a tenere gli occhi a terra oppure sulle mani dalle dita monche, nessun danno gli sarebbe stato arrecato. Questa era una delle prime lezioni che s'imparavano, quando si aveva a che fare con gli abissi. L'aria si fece gelida. Burgess vedeva il suo fiato che si condensava e la testa gli doleva per il freddo.

"Mi dispiace," disse in tono sincero all'ombra che lo seguiva.

La voce che gli rispose era più dolce di quanto si fosse aspettato. "Non è stata colpa tua."

"No," disse Burgess, acquistando una certa sicurezza da quel tono conciliante. "È stato un errore e me ne pento. Ho sottovalutato Kinderman."

"Questo è stato un errore. Ma tutti noi facciamo degli errori," disse l'Inferno. "Fra un secolo, comunque, riproveremo. La democrazia è ancora un nuovo punto: non ha ancora perso il suo fascino superficiale. Le concederemo un altro secolo e poi avremo la meglio su di loro."

"Sì."

"Ma tu..."

"Lo so."

"Per te, Gregory, nessun potere."

"Lo so."

"Non è la fine del mondo. Guardami."

"Non adesso, se non le dispiace."

Burgess continuò a camminare passo dopo passo. Con calma. Con razionalità.

"Guardami, per favore," disse con voce melliflua l'Inferno

"Più tardi, signore."

"Ti sto solo chiedendo di guardarmi. Gradirei un minimo di rispetto."

"Lo farò. Lo farò sul serio. Più tardi."

In quel punto il corridoio si divideva. Burgess andò a sinistra. Pensò che il simbolismo potesse apparire lusinghiero. Era un passaggio senza via d'uscita.

Burgess si ritrovò con la faccia al muro, sentì l'aria gelida penetrargli nel midollo e le cauterizzazioni sui moncherini gli facevano veramente vedere le stelle. Si tolse i guanti e si succhiò con tenacia i pollici.

"Guardami. Voltati e guardami," disse la voce cortese.

Che cosa doveva fare adesso? Uscire da quel corridoio e trovare un'altra via era la cosa migliore, con tutta probabilità. Avrebbe semplicemente continuato a girare in cerchio finché fosse riuscito a definire il punto della situazione in modo abbastanza convincente, perché quell'entità lo lasciasse stare.

Mentre cercava di destreggiarsi fra le alternative che gli rimanevano, percepì un lieve dolore al collo.

"Guardami," disse ancora la voce.

Si sentì stringere la gola. Nella sua testa si fece stranamente strada un rumore stridulo, il rumore di un osso che sfrega contro un altro osso. Sentì come se un coltello gli fosse stato conficcato alla base del cranio.

"Guardami," disse un'ultima volta l'Inferno e la testa di Burgess girò.

Non il suo corpo. Quello rimase contro la spoglia parete.

Mentre la testa roteò attorno al suo fragile asse, noncurante della ragione e dell'anatomia, Burgess rimase strangolato mentre l'esofago si attorcigliava su se stesso come una fune, le vertebre si sgretolarono in polvere, la cartilagine in poltiglia fibrosa. Gli occhi sanguinarono, le orecchie saltarono e morì, mentre guardava quel volto tetro, sempiterno.

"Ti avevo detto di guardarmi," disse l'Inferno e se ne andò per la sua triste strada, lasciandolo lì. Un bel dilemma per i democratici che lo avrebbero trovato nel palazzo di Westminster.

 

Jacqueline Ess: le sue ultime volontà

 

Dio mio, pensò, questa non può essere vita. Da mattina a sera: la noia, la fatica, la frustrazione.

Mio Dio, pregò, lasciami andare, lasciami libera, crocifiggimi se devi, ma metti fine alla mia angoscia.

Invece della Sua benedizione, prese una lametta dal rasoio di Ben, un grigio giorno di fine marzo, si chiuse nel bagno e si tagliò le vene.

Alle orecchie palpitanti le giunse la debole eco della voce di Ben che parlava dietro la porta.

"Sei lì, cara?"

"Vattene," pensò di aver detto.

"Sono tornato presto, dolcezza, non c'era tanto traffico."

"Per favore, vai via."

Lo sforzo verbale la fece scivolare giù dall'asse della tazza sul pavimento piastrellato di bianco, dove si stavano già formando pozze di sangue.

"Cara?"

"Vai."

"Cara."

"Via."

"Ti senti bene?"

Adesso stava picchiando sulla porta, il verme, non capiva che non poteva aprire, che non avrebbe aperto?

"Rispondimi, Jackie."

Le sfuggì un gemito. Non riusciva a trattenersi. Il dolore non era tremendo come aveva pensato, ma aveva una sensazione orribile, come se la prendessero a calci nella testa. Non sarebbe riuscito ad arrivare in tempo, comunque, non ora. Neanche se buttava giù la porta.

Ben buttò giù la porta.

Lo guardò attraverso un'aria di morte fattasi così spessa che la si sarebbe potuta tagliare con un coltello.

"È troppo tardi," pensò di aver detto.

Ma non era così.

 

Mio Dio, pensò, questo non può essere il suicidio. Non sono morta.

Il medico alle cui cure Ben l'aveva affidata era fin troppo benevolo. Solo il meglio, le aveva promesso, solo il meglio del meglio per la mia Jackie.

"Non c'è nulla," la rassicurò il medico, "che non si possa sistemare con una piccola aggiustatina."

Perché non dice semplicemente quello che pensa? si chiese. Non gliene frega niente. Non sa che cosa si prova.

"Ho molte pazienti che hanno questo genere di problemi," si confidò, lasciando trapelare una professionale comprensione. "Ha raggiunto proporzioni epidemiche fra le donne di una certa età."

Lei aveva appena trent'anni. Che cosa le voleva dire? Che era in menopausa precoce?

"Depressione, isolamento parziale o totale, nevrosi sotto qualsiasi forma e dimensione... Lei non è sola, mi creda."

Oh, sì che sono sola, pensò. Sono qui nella mia testa, da sola e tu non puoi sapere che cosa si prova.

"La rimetteremo in sesto in un batter d'occhio."

Con fare pensieroso lasciò vagare lo sguardo prima sui suoi diplomi incorniciati, poi sulle unghie curate, sulle penne allineate sulla scrivania e sul ricettario. Ma non guardò mai Jacqueline. Ovunque, ma non Jacqueline.

"Lo so," stava dicendo ora, "che cos'ha passato, ed è stato traumatico. Le donne hanno certe esigenze. Se non vengono corrisposte..."

Che cosa ne sapeva dei bisogni delle donne?

Non sei una donna, pensò di aver pensato.

"Che cosa?" disse. Aveva parlato? Scosse la testa: negando di aver proferito parola. Lui proseguì, ritrovando ancora una volta il suo ritmo: "Non ho intenzione di sottoporla a interminabili sedute terapeutiche. Lei non vuole questo, è così? Lei desidera semplicemente essere rassicurata e vuole qualcosa che l'aiuti a dormire la notte."

Adesso la stava veramente irritando. La sua compiacenza era così profonda che non aveva fondo. Un Padre che tutto sa, che tutto vede. Questa era la parte che stava recitando. Come se fosse dotato di una vista miracolosa che gli permetteva di scrutare nell'animo femminile.

"Ovviamente, in passato ho provato dei corsi terapeutici con alcune pazienti. Ma fra lei e me..."

Le toccò leggermente la mano. Il palmo del Padre sulla sua mano. Si presumeva che avrebbe dovuto sentirsi lusingata, rassicurata, forse persino sedotta.

"... lei e io abbiamo parlato molto. Parole a non finire. Ma francamente, che cosa se ne ricava? Tutti noi abbiamo dei problemi. Non potrà certo eliminarli continuando a parlare, non crede?"

Non sei una donna. Non hai nulla di una donna, non senti come una donna.

"... Ha detto qualcosa?"

Scosse la testa.

"Mi è sembrato che avesse detto qualcosa. La prego, si senta libera di parlare onestamente con me."

Jackie non rispose e lui sembrò stanco di fingere un'intimità che non c'era. Si alzò e andò alla finestra.

"Credo che la cosa migliore per lei..."

Si mise davanti alla luce, oscurando la stanza, impedendo la vista dei ciliegi nel prato che s'intravedevano dalla finestra. Osservò le sue spalle larghe e i suoi fianchi stretti Un bel pezzo d'uomo, come avrebbe detto Ben. Non sarebbe passato attraverso delle gravidanze, lui. Fatto per rifare il mondo, un corpo come quello. Se non proprio il mondo, sarebbe servito per rifare le teste.

"Credo che la cosa migliore per lei..."

Che cosa ne sapeva lui, con quei fianchi, con quelle spalle? Era troppo maschio per comprendere qualcosa di una donna come lei.

"Credo che la cosa migliore per lei sia una cura di sedativi..."

Ora i suoi occhi erano fissi sulla vita.

"... e una vacanza."

Ora la sua mente era focalizzata sul corpo sotto i vestiti. Muscoli, ossa e sangue sotto la cute elastica. Se lo immaginò da tutti i lati, lo valutò, ne giudicò le capacità di resistenza. Poi si fece più vicina. Pensò:

Sii una donna.

Semplicemente, così come lo aveva formulato, quel pensiero assurdo cominciò a prendere forma. Purtroppo, contrariamente a quanto spesso accade nelle fiabe, la sua carne non sopportò la magia. Jackie desiderò che il suo petto villoso generasse due seni e infatti cominciò a gonfiarsi in modo molto attraente, finché la pelle si lacerò e lo sterno andò in pezzi. La pelvi, sollecitata al limite di rottura, si spaccò al centro. Sbilanciato, crollò sulla scrivania e da quella posizione la guardò, la faccia gialla per lo choc. Si leccò ripetutamente le labbra, per trovare un po' di umidità con cui parlare. La bocca era secca: le sue parole morivano sul nascere. Era da sotto le gambe che proveniva tutto quel rumore. Gli spruzzi di sangue; il tonfo delle viscere sul tappeto.

Jackie urlò di fronte all'assurda mostruosità che aveva creato e si ritirò in un angolo della stanza, dove vomitò nel vaso del ficus.

Mio Dio, pensò, questo non può essere omicidio. Non l'ho nemmeno sfiorato.

 

Ciò che Jacqueline aveva fatto quel pomeriggio, lo tenne per sé. Non aveva senso far passare alla gente notti insonni, consumate a pensare a quel talento così particolare.

La polizia fu molto gentile. Uscirono con un numero incredibile di spiegazioni per l'improvvisa scomparsa del dottor Blandish, e nessuna descriveva esattamente come il suo petto fosse eruttato in quel modo straordinario, trasformando i suoi pettorali in un paio di tette magnifiche (anche se pelose).

Si dava per scontato che qualche ignoto psicopatico, nel pieno di una crisi, avesse fatto irruzione nello studio, eseguito il lavoretto con le sue mani e con l'ausilio di martelli e seghe, andandosene alla fine e lasciando l'innocente Jacqueline Ess chiusa in un silenzio terrorizzato che nessun interrogatorio poteva sperare di penetrare.

La persona o le persone ignote avevano chiaramente spedito il medico in un luogo dove né sedativi né terapie avrebbero potuto aiutarlo.

 

Per un po' riuscì quasi a dimenticare, ma con il passare dei mesi le ritornò piano piano alla mente, come il ricordo di un adulterio segreto. La stuzzicava con i suoi pensieri proibiti. Dimenticò la nausea e ricordò il potere. Dimenticò l'orrore e ricordò la forza. Dimenticò il rimorso che in seguito l'aveva sopraffatta e desiderò, desiderò ardentemente di farlo ancora.

Ma meglio.

 

"Jacqueline."

È veramente mio marito, pensò, che mi sta chiamando per nome? Solitamente era Jackie, oppure Jack, oppure niente del tutto.

"Jacqueline."

La stava guardando con i suoi occhioni azzurri, come lo studente di cui si era innamorata a prima vista. Ma la sua bocca si era indurita e i suoi baci sapevano di pane ammuffito.

"Jacqueline."

"Sì?"

"C'è qualcosa di cui vorrei parlarti."

Una conversazione? pensò. Dev'essere festa.

"Non so come dirtelo."

"Provaci," suggerì.

Sapeva che avrebbe potuto manipolare quel pensiero, se le avesse fatto piacere. Fargli dire ciò che voleva udire. Parole d'amore, forse, se riusciva a ricordarne il suono. Ma a che cosa sarebbe servito? Meglio la verità.

"Tesoro, sono uscito un po' dal seminato."

"Che cosa vuoi dire?" chiese.

L'hai fatto, bastardo, pensò.

"È successo quando tu eri un po' fuori. Sai, quando le cose tra di noi erano più o meno finite. Stanze separate... tu volevi stanze separate... e io sono quasi impazzito per la frustrazione. Non volevo turbarti, così non ho detto nulla. Ma è inutile che io cerchi di vivere due vite."

"Puoi avere una relazione se vuoi, Ben."

"Non è una relazione, Jackie. Io sono innamorato..."

Stava preparando uno dei suoi discorsi, riusciva a vedere le parole che acquistavano gradatamente velocità dietro i suoi denti. Le giustificazioni che diventavano accuse, quelle scuse che si tramutavano sempre in critiche al suo carattere. Una volta che cominciava a vomitare parole non c'era nulla che potesse fermarlo. Non voleva ascoltare.

"... non è affatto come te, Jackie. È frivola a suo modo. Tu diresti che è superficiale."

Forse vale la pena interromperlo, pensò, prima che cominci a confondersi come al solito.

"Non ha un temperamento come te. Vedi, è semplicemente una donna normale. Con questo non voglio dire che tu non lo sia: non puoi fare a meno di deprimerti. Ma lei non è così sensibile."

"Non c'è bisogno, Ben..."

"No. Dannazione! Voglio levarmi questo peso di dosso!"

E buttarlo su di me, pensò.

"Non hai mai lasciato che ti spiegassi," stava dicendo. "Mi hai sempre lanciato una di quelle tue dannatissime occhiate, come se volessi che..."

Morissi.

"... come se volessi che chiudessi la bocca."

Chiudi la bocca.

"Non te ne frega niente di quello che provo!" Adesso stava urlando. "Sempre chiusa nel tuo piccolo mondo."

Stai zitto, pensò.

La sua bocca era aperta. Le parve di desiderare che si chiudesse e con quel pensiero le mascelle si serrarono, recidendogli la punta rosa della lingua. Gli cadde dalle labbra e si posò in una piega della camicia.

Stai zitto, pensò di nuovo.

Le due perfette file di denti si compressero una sull'altra, sgretolandosi e spaccandosi, nervi, calcio e saliva gli formarono una schiuma rosea sul mento, mentre la bocca veniva risucchiata all'interno.

Stai zitto, stava ancora pensando, mentre gli increduli occhioni azzurri sprofondarono nel cranio e il naso si insinuò strisciando nel cervello. Non era più Ben, era un uomo con una testa rossa da lucertola che si stava appiattendo, richiudendo su se stessa e, grazie a Dio, una volta per tutte non avrebbe più proferito verbo.

Adesso che ci aveva preso la mano, cominciò a divertirsi ad apportare tutti i cambiamenti che desiderava.

Con un movimento rapido lo mise a testa in giù sul pavimento e cominciò a comprimergli le braccia e le gambe, incastrando carne e ossa in uno spazio sempre più piccolo. Gli abiti erano ripiegati all'interno e il tessuto dello stomaco venne strappato dalle viscere accuratamente imballate e tirate attorno al corpo in modo da avvolgerlo. Le dita ora gli sporgevano dalle scapole e i piedi, che continuavano a dibattersi furiosamente, gli vennero rovesciati e conficcati nelle budella. Lo rivoltò un'ultima volta per schiacciargli la spina dorsale fino a farla diventare una colonna di letame lunga trenta centimetri. E quella era quasi la fine.

Mentre usciva dallo stato di estasi, vide Ben seduto sul pavimento, racchiuso in uno spazio grande più o meno come una delle sue belle valigette di pelle, mentre il sangue, la bile e il liquido linfatico uscivano pulsando debolmente dal suo corpo ormai messo a tacere.

Mio Dio, pensò, questo non può essere mio marito, non è mai stato così ordinato.

Questa volta non attese aiuto. Questa volta sapeva ciò che aveva fatto (indovinava, persino, come l'aveva fatto) e accettò il suo crimine per quello che era: una giustizia troppo dura. Fece i bagagli e se ne andò.

Sono viva, pensò. Per la prima volta nella mia miserabile vita, sono viva.

 

La testimonianza di Vassi (parte prima)

 

A voi che sognate di donne tenere e forti, io lascio questa storia. È una promessa, così come sicuramente è una confessione, così come sicuramente sono le ultime parole di un uomo perduto che altro non desiderava che di amare e di essere amato. Siedo qui, tremante, in attesa della notte, di quel ruffiano di Koos che verrà ancora a bussare alla mia porta e mi porterà via tutto in cambio della chiave della sua stanza.

Non sono un uomo coraggioso, non lo sono mai stato, perciò ho paura di ciò che può accadermi stanotte. Ma non posso continuare a vivere sognando tutto il tempo, sopravvivendo nell'oscurità, dopo aver intravisto solo di sfuggita il Paradiso. Prima o poi ci si deve rimboccare le maniche, alzarsi e andare a trovarlo. Anche se la posta in gioco è il mondo intero.

Forse quello che sto dicendo non ha senso. Starete pensando, voi che siete capitati su questa testimonianza, starete pensando, chi è questo imbecille?

Il mio nome era Oliver Vassi. Adesso ho trentotto anni. Ero avvocato, fino più o meno a un anno fa, quando iniziai la ricerca che finisce stanotte, con quel ruffiano e quella chiave e quella sancta sanctorum.

Ma la storia inizia più di un anno fa. Sono trascorsi molti anni da quando Jacqueline Ess venne per la prima volta da me.

Arrivò nel mio ufficio come un fulmine a ciel sereno, dicendo di essere la vedova di un mio vecchio compagno di scuola, un certo Benjamin Ess. E quando tornai indietro con il pensiero negli anni, ricordai quel volto. Un amico comune che era stato al matrimonio mi aveva mostrato una fotografia di Ben e della sua stupenda mogliettina. Ed eccola di fronte a me, in tutta la sua bellezza sfuggente, proprio come nella fotografia.

Ricordo ancora il mio profondo imbarazzo in quel primo incontro. Era arrivata in un'ora di punta ed ero pieno di lavoro fino al collo. Ma ero così affascinato, che lasciai perdere tutti gli appuntamenti di quel giorno e quando la mia segretaria entrò in ufficio mi lanciò una delle sue occhiate, come se volesse rovesciarmi addosso un secchio di acqua gelata. Credo di essermi innamorato fin dal primo momento e lei percepì l'atmosfera elettrica nel mio ufficio. Io fingevo di essere semplicemente gentile con la vedova di un vecchio amico. Non mi piaceva pensare alla passione: non faceva parte della mia natura, o perlomeno così pensavo. Quanto poco conosciamo -voglio dire conosciamo veramente - le nostre capacità.

Jacqueline mi raccontò bugie fin dall'inizio. Su come Ben fosse morto di cancro, delle tante volte che aveva parlato di me affettuosamente. Credo che se mi avesse raccontato tutta la verità senza indugio l'avrei ascoltata con la stessa grande avidità. Credo di essermi consacrato a lei fin dall'inizio.

Ma è difficile ricordare esattamente come e quando il semplice interesse per un altro essere umano si trasforma in qualcosa di più impegnativo, di più travolgente. Può essere che io mi stia inventando l'impatto che ebbe su di me in occasione di quel primo incontro, semplicemente reinventando la storia per giustificare i miei successivi eccessi. Non ne sono sicuro. Comunque, come o quando accadde, se immediatamente o dopo, io cedetti e la relazione iniziò.

Non sono un uomo particolarmente curioso per quanto concerne amici e amanti. Un avvocato passa il suo tempo a frugare nell'immondizia delle vite altrui e, francamente, otto ore al giorno di questa attività per me sono più che sufficienti. Quando sono fuori dell'ufficio, traggo piacere nel lasciare che le persone siano quel che sono. Non indago. Non scavo. Le accetto per quello che sono.

Jacqueline non faceva eccezione a questa regola. Era una donna che ero felice di avere nella mia vita, quale che fosse stata la verità del suo passato. Era dotata di un incredibile sangue freddo, era intelligente, spudorata, ambigua. Non avevo mai incontrato una donna più affascinante. Non erano affari miei come avesse vissuto con Ben, come fosse stato il loro matrimonio eccetera. Questa era la sua storia. Ero felice di vivere nel presente e di lasciare che il passato morisse di morte naturale. Credo di essermi sentito persino lusingato dal fatto che, quale che fosse stata l'esperienza dolorosa che aveva vissuto, io potevo aiutarla a dimenticare.

Nelle storie che raccontava c'erano senza dubbio delle lacune. Come avvocato ero sensibile alle menzogne e per quanto cercassi di non dar peso alle mie percezioni, ebbi l'impressione che quella donna non si fosse completamente confidata con me. Del resto, tutti hanno dei segreti: questo lo sapevo. Lascia che lei abbia i suoi, pensai.

Solo una volta la sfidai su di un dettaglio della presunta storia della sua vita. Parlando della morte di Ben, si era lasciata sfuggire che aveva avuto ciò che si era meritato. Le chiesi che cosa intendeva. Sorrise, uno di quei suoi sorrisi da Gioconda e mi disse che la sua impressione era che tra l'uomo e la donna fosse necessario ristabilire un equilibrio. Lasciai correre l'osservazione. Dopo tutto, a quel tempo ero ossessionato, oltre ogni speranza di salvezza. Qualunque argomentazione mi presentasse ero felice di dargliela per buona.

Era così bella, capite. Ma non in un senso bidimensionale: non era giovane, non era innocente, non aveva quella simmetria così cara ai pubblicitari e ai fotografi. Il suo era semplicemente il volto di una donna sulla quarantina: era stato usato per ridere e piangere e l'uso lascia i suoi segni. Ma aveva il potere di trasformarsi, nei modi più sottili, rendendo il suo volto mutevole come il cielo. I primi tempi pensai che fosse opera del trucco. Ma dopo aver dormito insieme tante e tante volte e averla osservata la mattina, con gli occhi pieni di sonno e la sera appesantiti dalla fatica, compresi presto che non si metteva nulla, era così, ciò che era. Quello che la trasformava era qualcosa di interiore: era un gioco illusorio della volontà.

E, sapete, quello me la fece amare ancora di più.

Poi, una notte, mi svegliai con lei che dormiva accanto a me. Dormivamo spesso sul pavimento, che lei preferiva al letto. I letti, diceva, le ricordavano il matrimonio. Comunque, quella notte era distesa sotto una trapunta, sul pavimento della mia stanza e io, in preda all'adorazione, mi misi a contemplare il suo volto.

Se ci si dona completamente a un'altra persona, osservarla nel sonno può essere un'esperienza tremenda. Forse qualcuno di voi conosce questa paralisi, quando lo sguardo gravita sul volto chiuso alle vostre richieste, lontano da voi, dove non potrete mai e poi mai entrare nella mente dell'altro. Come dicevo, per noi che ci siamo donati, questa esperienza è orribile. In quei momenti, ci si rende conto di non esistere tranne che in relazione a quel viso, a quella personalità. Perciò, quando quel viso è chiuso, quella personalità è persa nel suo mondo imperscrutabile, ci si sente completamente senza scopo. Un pianeta senza sole che ruota nelle tenebre.

Fu così che mi sentii quella notte, guardando gli straordinari lineamenti del suo volto e mentre rimuginavo i miei pensieri, quello stesso volto cominciò ad alterarsi. Stava chiaramente sognando; ma che sogni doveva avere. La cute, i muscoli, i capelli, fin giù alle guance, tutto si stava muovendo sotto le direzioni impartite da qualche marea interna. Le labbra sbocciarono dall'ossatura, ribollendo verso l'alto a formare una torre schiumosa di pelle. I capelli ondeggiavano attorno alla testa come se fosse immersa nell'acqua. Sulle guance, la pelle cominciò a formare dei solchi e delle rughe come le cicatrici rituali di un guerriero; arabeschi di tessuto cutaneo rosso fuoco e pulsanti, che si gonfiavano e cambiavano ancora non appena se ne formava uno. Quella parodia di mutamenti mi terrorizzò tanto che dovetti fare rumore. Lei non si svegliò, ma la sua coscienza risalì più vicina alla superficie, lasciando le acque profonde dove questi poteri erano annidati. Le distorsioni cutanee svanirono in un attimo e il suo volto fu di nuovo quello di una donna graziosa che dormiva.

Questa fu, potete ben capirmi, un'esperienza decisiva, anche se nei giorni che seguirono cercai di convincermi che non avevo visto nulla.

Lo sforzo fu inutile. Sapevo che c'era qualcosa in lei che non andava e a quel tempo ero certo che non ne sapesse nulla. Ero convinto che ci fosse qualcosa nel suo sistema che non funzionava e mi decisi a indagare nella sua vita prima di dirle ciò che avevo visto.

Riflettendoci tutto ciò sembra, naturalmente, ovviamente, ridicolmente ingenuo. Pensare che non sapesse di avere un tale potere. Ma per me era più semplice immaginarla preda di una tale abilità, piuttosto che padrona. È così che un uomo parla di una donna. Ma non solo io, Oliver Vassi, di lei, Jacqueline Ess. Per noi è impensabile, dico per noi uomini, che il potere possa risiedere felicemente nel corpo di una donna, a meno che questo potere non sia un bel maschietto. Non il vero potere. Quello deve essere nelle mani degli uomini, dato loro da Dio. Questo è certo ciò che i nostri padri ci dicono, idioti che sono.

Comunque, feci delle indagini su Jacqueline, più segretamente che potei. Avevo un contatto a York dove la coppia aveva vissuto e non fu difficile mettere in moto delle ricerche. Ci volle una settimana prima che il mio informatore ritornasse perché aveva avuto il suo bel da fare a districarsi fra la marea di stronzate che la polizia aveva elaborato, per ottenere una traccia della verità, ma alla fine le informazioni arrivarono e non erano belle.

Ben era morto, su questo non c'erano dubbi. Ma non c'era verso che fosse morto di cancro. Il mio informatore aveva ottenuto solo cenni orripilanti rispetto alle condizioni del corpo di Ben; venne a sapere che era stato mutilato in modo spettacolare. E l'indiziato principale? La mia adorata Jacqueline Ess. La stessa donna innocente che occupava il mio appartamento e dormiva ogni notte accanto a me.

Non feci parola di quanto sapevo, ma le dissi semplicemente che mi stava nascondendo qualcosa. Non so che cosa mi aspettassi in cambio. Ciò che ricevetti fu una dimostrazione dei suoi poteri. Lo fece liberamente, senza malizia, ma sarei stato un pazzo se non vi avessi letto un avvertimento. Per prima cosa mi disse come aveva scoperto di poter controllare la somma e la sostanza degli esseri umani. Nella sua disperazione, disse, quando era sull'orlo del suicidio, aveva scoperto, nei recessi più profondi della sua natura, facoltà che non credeva potessero esistere. Poteri che risalivano da quelle regioni remote, come i pesci verso la luce.

Poi mi mostrò una minima parte di questi poteri, strappandomi i capelli della testa, uno per uno. Solo una decina; giusto per dimostrare le sue formidabili capacità. Li sentii che se rie andavano. Jacqueline disse semplicemente: uno da dietro l'orecchio, e io sentivo la pelle accapponarsi e poi saltar via un capello, come se un'emanazione della sua volontà a forma di dita lo avesse strappato. Poi un altro e un altro ancora. Fu una dimostrazione incredibile. Maneggiava il suo potere con grande maestria, individuando e strappando ogni singolo capello dal mio scalpo con la precisione di un paio di pinzette.

Francamente, stavo seduto lì rigido come un palo per paura pur sapendo che stava semplicemente giocando con me. Prima o poi, ero certo che sarebbe arrivato il momento in cui mi avrebbe messo a tacere per sempre.

Ma lei aveva dei dubbi rispetto a se stessa. Mi disse quanto quei poteri, sebbene li avesse affinati, la spaventavano. Aveva bisogno, disse, di qualcuno che le insegnasse come usarli meglio. E io non ero quel qualcuno. Io ero semplicemente un uomo che l'amava, che l'aveva amata prima di questa rivelazione e avrebbe continuato a farlo nonostante tutto.

Infatti, dopo quella dimostrazione giunsi velocemente a concepire una nuova visione di Jacqueline. Invece di temerla, mi affezionai ancora di più a quella donna che tollerava che io possedessi il suo corpo.

Il mio lavoro divenne un'irritazione, una distrazione che si frapponeva fra me e il costante pensiero della mia amata. Quale che fosse la mia reputazione, cominciò a deteriorarsi. Persi le cause, persi credibilità. Nel giro di due, tre mesi, la mia vita professionale si ridusse fino quasi a scomparire. I miei amici si disperarono per me, i colleghi mi evitarono.

Non è che mi succhiava il sangue. Voglio essere chiaro su questo. Non era né una lamia, né un succube. Ciò che mi accadde, il mio cadere in disgrazia, se preferite, fu tutta opera mia. Lei non mi stregò; questa è una romantica bugia per giustificare la violenza. Lei era un mare e io dovevo nuotare in lei. Ha un qualche senso questo? Avevo vissuto la mia vita sulla terraferma, nel solido mondo della legge, ed ero stanco. Lei era liquida; un mare sconfinato in un singolo corpo, un'inondazione in una piccola stanza e io annegherò felicemente in lei se mi concederà la possibilità. Ma quella fu una mia decisione. Che questo sia chiaro. È sempre stata una mia decisione. Io ho deciso di andare in quella stanza stanotte e di stare con lei per un'ultima volta. Questa è una mia libera scelta.

E quale uomo non lo farebbe? Lei era (è) sublime.

Per un mese dopo quella dimostrazione di potere, vissi in un'estasi permanente della sua persona. Quando ero con lei, mi mostrò modi di amare che andavano al di là dei limiti di qualsiasi altra creatura che Dio avesse messo sulla terra. Dico oltre i limiti, perché con lei non c'erano limiti. E quando ero lontano da lei le fantasticherie continuavano: perché era come se lei avesse cambiato il mio mondo.

Poi mi lasciò.

Sapevo perché. Era andata alla ricerca di qualcuno che le insegnasse come usare la forza. Ma comprendere le sue ragioni non mi alleviò comunque la pena.

Crollai. Persi il mio lavoro, persi la mia identità, persi i pochi amici che avevo ancora nel mondo. Lo notai appena. Erano perdite minori a confronto di quella di Jacqueline...

 

"Jacqueline."

Mio Dio, pensò, è possibile che questo individuo sia veramente l'uomo più influente del paese? Era così poco attraente, così poco spettacolare. Non aveva neanche il cipiglio da duro.

Ma Titus Pettifer era potere.

Conduceva più monopoli di quanti riuscisse a contarne. La sua parola nel mondo finanziario poteva spezzare le società come fuscelli, distruggere le ambizioni di cento, le carriere di mille. Fortune nascevano all'improvviso sotto la sua protezione, intere società crollavano quando lui vi soffiava sopra, vittime di un capriccio. Quest'uomo conosceva il potere, se mai a un uomo fosse stato dato di conoscerlo. C'era da imparare da lui.

"Le dispiace se la chiamo J.?"

"No."

"Ha aspettato molto?"

"Quanto basta."

"Solitamente non faccio aspettare le belle donne."

"E invece sì."

Lo conosceva già: due minuti al suo cospetto erano stati sufficienti per scoprire i suoi limiti. Avrebbe ceduto velocemente se fosse stata abbastanza insolente.

"Chiama sempre le donne che non ha mai visto prima con le loro iniziali?"

"È un metodo comodo per l'archivio. Ha qualcosa in contrario?"

"Dipende."

"Da cosa?"

"Da ciò che ottengo in cambio per concederle questo privilegio."

"È un privilegio, non è così, conoscere il suo nome?"

"Sì."

"Be', sono lusingato. Sempre che, ovviamente, non conceda questo privilegio indiscriminatamente."

Jacqueline scosse la testa. No, si vedeva che quella donna non scialacquava i suoi affetti.

"Perché ha insistito così tanto per vedermi?" disse. "Come mai ho qui degli appunti in cui è scritto che ha assillato le mie segretarie con la costante richiesta d'incontrarmi? Vuole del denaro? Perché se è così, se ne andrà a mani vuote. Sono diventato ricco perché sono avaro e più divento ricco più divento avaro."

Era la verità. Le aveva parlato schiettamente.

"Non voglio denaro," disse Jacqueline altrettanto schiettamente.

"Questo è un sollievo."

"Ci sono uomini più ricchi di lei."

Aggrottò le sopracciglia, sorpreso. Poteva mordere, questa bellezza.

"Vero," disse. C'erano almeno cinque o sei uomini più ricchi nell'emisfero.

"Non sono una piccola nullità in adorazione. Non sono venuta qui per sfruttare un nome. Sono venuta qui perchè possiamo stare insieme. Abbiamo molte cose da offrirci reciprocamente."

"Tipo?" chiese.

"Il mio corpo."

Sorrise. Era l'offerta più diretta che avesse udito in tanti anni.

"E io cosa dovrei offrirle in cambio per tale generosità?"

"Voglio imparare..."

"Imparare?"

"... come usare il potere."

Era sempre più strana, questa tipa. "Che cosa intende?" chiese, guadagnando tempo. Non era ancora riuscito a coglierne i limiti. Lo contrariava. Lo confondeva.

"Come glielo devo dire, in cinese?" disse Jacqueline con una tale affascinante insolenzà, che per poco non ne fu di nuovo attratto.

"Non c'è bisogno. Lei vuole imparare a usare il potere. Suppongo di poterglielo insegnare..."

"So che può."

"Lei capirà, io sono un uomo sposato. Virginia e io siamo insieme da diciotto anni."

"Ha tre figli, quattro case, una domestica che si chiama Mirabelle. Detesta New York e adora Bangkok. Porta la taglia cinquanta e il suo colore preferito è il verde."

"Turchese."

"Invecchiando è diventato più sofisticato."

"Non sono vecchio."

"Diciotto anni di matrimonio. Invecchiano prematuramente."

"Non è il mio caso."

"Lo dimostri."

"Come?"

"Scopami."

"Cosa?"

"Scopami."

"Qui?"

"Abbassa le veneziane, chiudi la porta, spegni il terminale e scopami. Ti sfido."

"Sfidarmi?"

Quant'era che qualcuno non lo sfidava a fare qualcosa?

"Sfidarmi?"

Era eccitato. Erano anni che non si sentiva così eccitato. Abbassò le veneziane, chiuse la porta, spense il video sulle sue fortune.

Mio Dio, pensò lei, l'ho in pugno.

 

Non fu una passione facile, non come quella con Vassi. Da un lato, Pettifer era un amante rozzo, brutale. Dall'altro, il pensiero di sua moglie lo innervosiva troppo per essere un adultero soddisfacente. Credeva di vedere Virginia ovunque: nell'atrio degli alberghi dove prendevano una camera, nei taxi che incrociavano la strada dove si davano appuntamento, una volta persino (giurò che la somiglianzà era perfetta) la vide nei panni di una cameriera che stava ripulendo un tavolo in un ristorante. Tutte paure irrazionali, ovviamente, ma che smorzarono in qualche modo la spontaneità dell'avventura.

Tuttavia, Jacqueline imparava da lui. Tanto quanto era brillante come capo, così era inetto come amante. Jacqueline imparò come essere influente senza esercitare il potere, come rimanere incontaminata dal sudiciume che il carisma fa emergere in coloro che carismatici non sono; come prendere decisioni semplici in modo chiaro; come essere spietata. Non che in questo campo le occorressero molte istruzioni. Forse è più giusto dire che Pettifer le insegnò a non dispiacersi mai di non avere una compassione istintiva, ma di giudicare solo razionalmente chi si meritava di essere eliminato e chi invece poteva essere annoverato fra i giusti.

Non una volta si mostrò a lui, anche se usò le sue abilità nei modi più segreti, per suscitare piacere nei suoi sensi arrugginiti.

Dopo circa un mese, il traffico delle cinque si riversava chiassoso nella strada sottostante e loro giacevano l'uno accanto all'altro in una stanza color lillà. Più che un amplesso, era stato un incontro di pugilato. Pettifer era nervoso e non c'era stato verso di farlo uscire dal suo stato. Si era risolto tutto molto in fretta, quasi senza ardore.

Stava per dirle qualche cosa. Lo sapeva: stava aspettando, quella rivelazione, in qualche punto in fondo alla sua gola. Girandosi verso di lui, gli massaggiò con il pensiero le tempie per tranquillizzarlo affinchè parlasse.

Stava per rovinargli la giornata.

Stava per rovinargli la carriera.

Stava per rovinargli, che Dio lo assistesse, la vita.

"Devo smettere di vederti," disse.

Non oserà, pensò Jacqueline.

"Non so per certo che cosa so di te o piuttosto che cosa penso di sapere di te, ma mi rende... sospettoso nei tuoi confronti, J. Capisci?"

"No."

"Temo di sospettare che tu abbia commesso dei... crimini."

"Crimini?"

"Nel tuo passato."

"Chi ha frugato nella mia vita?"

"Sicuramente non Virginia."

"No, non lei, la curiosità non la tocca."